martedì 15 agosto 2023

SAN ROCCO: IL SANTO DEGLI APPESTATI

“ A Santu Rocc ogni fica scopp” Così recita il detto mondragonese per indicare che è proprio SAN nel periodo della festa di San Rocco, che ricorre il 16 agosto, che maturano i primi fichi.
C’è anche il detto “Santu Rocc e ru cacciuttiegli(o)” con cui si è soliti indicare due persone che vanno sempre insieme, formando per così dire una coppia, nella quale uno dei due segue sempre l’altro con grande fedeltà e devozione, prerogative proprie di un cane che segue il suo padrone.
Il detto prende spunto da un episodio della vita del Santo, che si prodigò molto per curare gli appestati. Alla fine si ammalò lui stesso e si rifugiò in una grotta, dove un cagnolino, suo fedele compagno, gli portava da mangiare, rubando ogni giorno una pagnottella dalla mensa del suo padrone.
Il culto di san Rocco era molto sentito e diffuso a Mondragone, essendo egli protettore contro la peste, una malattia terribile e contagiosa, da cui la popolazione chiedeva di essere liberata.
Secondo la ricostruzione storica, nel 1656, periodo della dominazione spagnola nel Napoletano, era scoppiata un’epidemia di peste e i Mondragonesi rimasero miracolosamente immuni dal contagio.
In ringraziamento di tale privilegio dovette sorgere in quel periodo la cappella di san Rocco, in località Croce di Monte, lungo la Via Appia, in due ambienti terranei di un'antica villa romana, sui quali poi è sorta una masseria nell’ ‘800.
Vi si accedeva scendendo delle scalette e all’interno vi era un affresco raffigurante san Rocco, a cui poi si è aggiunta una statua lignea del Santo, donata dalla famiglia Capotosto negli anni ‘60.
Circa la storia della masseria, sempre intitolata a S. Rocco, è stata fondamentale la testimonianza di Antonio Pompeo, che ha potuto fornire preziose informazioni, visto che la masseria era di proprietà della famiglia di sua madre, la famiglia Palumbo, oltre al fatto di aver abitato nella masseria da bambino.
Essa fu costruita da Pietro Palumbo nei primi dell'800 e difatti, su un punto del marmo nell'aia, era inciso P.P. 1800.
Dopo averla costruita e averci vissuto per una ventina di anni con la sua famiglia, Pietro, verso la fine dell'800, la dovette vendere, con tutti i terreni annessi, a causa di un incidente in cui un bambino perse la vita, investito dal suo calesse.
L'intera proprietà venne quindi acquistata da un suo amico, don Antonio Greco. Nei primi anni ‘20, il Sig. Greco chiese a Giovanni Palumbo, nipote di Pietro, se voleva abitare nella masseria e coltivarne i terreni circostanti, visto che era diventata improduttiva e stava andando in malora, in cambio di una sorta di mezzadria molto bonaria.
Giovanni Palumbo, nonno di Antonio Pompeo, accetto' e così, appena dopo sposato, vi si trasferì con la moglie e lì sono nati i suoi figli, tra cui la madre di Antonio.
Giovanni è rimasto nella masseria fino al 1962 e Antonio vi è cresciuto fino a sei o sette anni.
Fino a che era viva la nonna, Rosaria Piglialarmi, egli ricorda che nel giorno di San Rocco si faceva una grande festa sull'aia e lei preparava delle pagnottelle che il prete benediceva e che poi venivano dispensate gratis a chi ne faceva richiesta.
Ricorda anche un uomo alto, con i baffi, vestito con un saio nero, che ogni giorno andava nella chiesetta per pulirla e accendere i lumini, zì Luigi.
La masseria è, in seguito, ritornata alla famiglia Greco, sua proprietaria. Non era più abitata , né coltivato il terreno circostante ma ogni anno continuava la tradizione di andare in pellegrinaggio alla cappella nel giorno della festa del Santo.
I sacerdoti delle varie parrocchie andavano lì a celebrare la Santa Messa, alternandosi negli orari e a tutti i devoti venivano distribuite le pagnottelle benedette ma già si era persa la tradizione del canto a S. Rocco, che si cantava in tempi più remoti.
Grazie alle ricerche di Andrea Capuano, è stato possibile il recupero del canto, attraverso interviste alle persone anziane, che ancora lo ricordavano.
(Un canto simile si canta tutt’oggi a Tolve in provincia di Potenza)
Santu Rocc(o) seva figlio de rignanti
Manc na mmennula mmocc se metteva
Nu juorno s’abbiava pe la carità
vicin a nu purtone a tuzzulià
s’affaccia na dunzella ‘nfinistella:
- E oggi nun è juorno de latenza
Sta nu malato a liett, sta pe murì
- Io nun so venuto pe la carità
So venuto a fa visita a stu malato
Santu Rocc pe la scala saglieva
Ru segn de la croce se faceva
E ru malato da ru liett se susseva
A gente de la casa ru vuleva pagà
E santu Rocc nun vulette niente
Si santu Rocco pigliava ri rinari
Saria chiù ricc de lu mare
Evviva santu Rocc e santu Rocc evviva
Evviva santu Rocc e chi ru criò
Poi, a seguito di lavori di ristrutturazione della masseria, l’intera area è stata recintata e non più visitabile.
La statua di san Rocco è stata portata nella chiesa di sant’Angelo, dove continua la devozione verso questo Santo, che si può definire come un eroe della carità, un precursore del volontariato laico, un taumaturgo instancabile.
La masseria si è trasformata in un ristorante, Villa Petrinum, che tende a valorizzare le tradizioni, le bellezze e le peculiarità del territorio.
Nonostante la grande popolarità di san Rocco, le notizie sulla sua vita sono molto frammentarie .
Nato a Montpellier, in Francia, tra il 1346 e il 1350 da una famiglia agiata, ricevette un’educazione religiosa da parte della madre , che lo spinse a diventare “servo di Cristo”.
Avendo perso i genitori in giovane età, distribuì i suoi beni ai poveri, si affiliò al Terz’Ordine Francescano, vestì l’abito del pellegrino, con un corto mantello e un bastone, in testa un largo cappello per proteggersi dal sole e dalla pioggia e si incamminò verso Roma per andare a pregare sulla tomba di san Pietro e Paolo.
Arrivato in Italia, durante le epidemie di peste, andava a soccorrere i contagiati, mettendosi al servizio di tutti.
Tracciando un segno di croce sui malati e invocando Dio, ne diventò lo strumento per miracolose guarigioni finché scoprì di essere stato contagiato lui stesso.
Si rifugiò, allora, in un bosco, in un capanno sul fiume Trebbia, in una località chiamata Sarmato, appartenente al nobile Gottardo Pollastrelli.
Uno dei cani del signore lo trovò e lo salvò dalla morte portandogli ogni giorno un pezzo di pane, che rubava dalla mensa del suo padrone; questi un giorno lo seguì, scoprendo il rifugio del Santo, che lo scongiurò di allontanarsi ma non ci fu verso; Gottardo lo prese con sé e lo fece curare fino alla completa guarigione.
Poi san Rocco prese la via del ritorno in patria ma venne arrestato perché sospettato di essere una spia e gettato in prigione, dove trascorse cinque anni fino alla morte, avvenuta il 16 agosto del 1376, secondo alcuni, secondo altri più tardi.
Antonio Pompeo
Andrea Capuano




domenica 13 agosto 2023

RI PUTRUSIN PE FA LE PURPETT

Un uomo confidò alla moglie che gli era nato “nu putrusin” nelle parti intime, proprio dove non si poteva vedere. ( Probabilmente si riferiva a qualche piccola escrescenza, chissà forse un foruncolo, che non sapeva definire in altro modo e scherzosamente l’aveva chiamato così). La moglie, un po’ preoccupata, ne parlò con la comare: - Cummà, sapit, accussì accussì … ma ve raccumann, nu lu ricite a nisciun! La comare, invece, ne parlò con un’altra comare e questa con un’altra ancora e così via, più si diffondeva la notizia, più ci si allontanava dal racconto iniziale e più cresceva il prezzemolo, da uno passò a due, poi ad un ciuffo, poi ad una pianta, tanto che, alla fine, era diventato un cespuglio talmente verde, bello e rigoglioso che le comari volevano “Ri putrusin pe fa le purpett!!!”

Questo simpatico racconto della tradizione mette l’accento sul pettegolezzo, le chiacchiere inopportune e malevoli, una consuetudine antica e sempre attuale, oggi definito anche gossip.
Ne parla anche Virgilio nel quarto libro dell’Eneide, dove, in breve, si racconta che durante una battuta di caccia scoppiò un violento temporale. Enea e Didone si dovettero rifugiare in una grotta e fu lì che si confessarono il loro amore, amandosi appassionatamente.
La fama dell’accaduto si diffuse dappertutto, arrivò fino a Iarba, re di Libia e figlio di Giove, pretendente di Didone, da lei rifiutato. Iarba pregò il padre Giove di punire Didone. Giove mandò ad Enea il suo messaggero a dirgli che doveva andar via. Enea a malincuore dovette ubbidire e quindi partire e Didone si suicidò per il dolore.
La Fama, per i Romani, era la messaggera di Giove, colei che ne diffondeva le notizie. Virgilio definisce la Fama un terribile uccellaccio più rapido di qualunque altra peste. “… celeri i piedi e le ali mobilissime… quante piume ha sul corpo, tanti vigili occhi ha di sotto, tante lingue , tante bocche ripetono, tanti orecchi si drizzano. Di notte vola, né chiude al sonno le palpebre, di giorno vigile, siede o sul culmine di un tetto o in vetta alle torri, sgomenta grandi città…”
Il terribile uccellaccio della Fama, un mostro capace di seppellire sotto quintali di fango la dignità di un essere umano in pochi istanti, colpevole o innocente che sia.
A Mondragone, a tal proposito , si usa dire: - A gent? Na vot te fann saglie ‘nciel e na vot te fann scegn ‘nterra”! Io aggiungerei che, quando ci si mettono, sono capaci di mandarti anche sotto terra.
Anche Papa Francesco ha affrontato varie volte l’argomento, definendo il pettegolezzo “il chiacchiericcio, una peste peggiore del Covid” ed aggiunge che la pedagogia suggerita da Gesù, quando un fratello sbaglia, è quella del recupero, non l’accusa o la condanna.

Grazie come sempre alla carissima Clara Ricciardone

domenica 6 agosto 2023

QUANN STA PE ‘MBRUCULI’


Nel racconto “Angiulu mij, cu st’uocchi lucent…” la protagonista si doveva recare all’appuntamento sulla montagna “quann sta pe ‘mbruculì”.
E’ un’espressione tipica del dialetto mondragonese che indica quel periodo di tempo, dopo il tramonto e prima del buio completo, quando la luce ha quasi ceduto il posto al buio e quindi sono le ombre a prevalere, tutto si trasforma in un vedo non vedo, ci sembra di vedere ma non ne siamo sicuri, le forme perdono il loro contorno definito e netto e diventano approssimative.
Secondo una mia personale interpretazione il verbo “Mbruculire” deriva dal sostantivo latino “umbra”, che vuol dire ombra e dal verbo colo-is- colui- cultum ( da cui deriva la parola culto)- ere, che vuol dire coltivare ma anche venerare, osservare e quindi, nel nostro caso, osservare, vedere le ombre.
E’ il momento in cui tutti ci si ritira in casa perché la giornata è finita e si avvicina l’ora del riposo.
E’ il momento in cui si avverte forse un po’ di malinconia per il tempo trascorso, che, però, subito passa perché la vita continua domani, in un altro giorno …e magari si fa un rapido bilancio della giornata: - Avrò risposto bene in quel modo o era meglio nell’altro? E se è così, domani si cercherà di rimediare perché nella vita è così, è un continuo sbagliare e poi cercare di rimediare.
E’ ora di deporre le armi, di rilassarsi finalmente, di accogliere quella pace tanto desiderata ma quasi impossibile da raggiungere durante il giorno.
Si potrebbe anche dire che tutto questo succede al calar della sera, solo che non sarebbe la stessa cosa perché il nostro dialetto è più espressivo, è preciso, dettagliato, in questo caso più suggestivo.
Perciò tutto questo avviene “quann sta pe ‘mbruculì”.
La foto è tratta da "Il Bello di Mondragone"