Nel racconto “Angiulu mij, cu st’uocchi lucent…” la protagonista si doveva recare all’appuntamento sulla montagna “quann sta pe ‘mbruculì”.
E’ un’espressione tipica del dialetto mondragonese che indica quel periodo di tempo, dopo il tramonto e prima del buio completo, quando la luce ha quasi ceduto il posto al buio e quindi sono le ombre a prevalere, tutto si trasforma in un vedo non vedo, ci sembra di vedere ma non ne siamo sicuri, le forme perdono il loro contorno definito e netto e diventano approssimative.
Secondo una mia personale interpretazione il verbo “Mbruculire” deriva dal sostantivo latino “umbra”, che vuol dire ombra e dal verbo colo-is- colui- cultum ( da cui deriva la parola culto)- ere, che vuol dire coltivare ma anche venerare, osservare e quindi, nel nostro caso, osservare, vedere le ombre.
E’ il momento in cui tutti ci si ritira in casa perché la giornata è finita e si avvicina l’ora del riposo.
E’ il momento in cui si avverte forse un po’ di malinconia per il tempo trascorso, che, però, subito passa perché la vita continua domani, in un altro giorno …e magari si fa un rapido bilancio della giornata: - Avrò risposto bene in quel modo o era meglio nell’altro? E se è così, domani si cercherà di rimediare perché nella vita è così, è un continuo sbagliare e poi cercare di rimediare.
E’ ora di deporre le armi, di rilassarsi finalmente, di accogliere quella pace tanto desiderata ma quasi impossibile da raggiungere durante il giorno.
Si potrebbe anche dire che tutto questo succede al calar della sera, solo che non sarebbe la stessa cosa perché il nostro dialetto è più espressivo, è preciso, dettagliato, in questo caso più suggestivo.
Perciò tutto questo avviene “quann sta pe ‘mbruculì”.
La foto è tratta da "Il Bello di Mondragone"
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