Mo vene Natale
Nun tengo dinari
Me fumo na pippa
E me vaco a cuccà
A meza notte
Spareno e bbotte
Me metto o cazone
E vaco a veré
‘mbriacate tu
‘mbriacate tu
Si care malato
T’a viri tu
Questi versi, che ancora oggi vengono cantati scherzosamente in occasione del Natale, fanno parte di una filastrocca di origini napoletane, cantata anche a Mondragone. Sarà stata composta sicuramente da qualcuno che viveva in povertà e che non poteva certo preparare il cenone della vigilia o il pranzo di Natale secondo la tradizione, ma che nonostante tutto ci scherzava su cantando , accontentandosi di quel poco che la vita poteva offrire.
L’indigenza delle famiglie non era rara, essendo la povertà una condizione di vita molto diffusa nei tempi passati ma, se durante l’anno tante erano le limitazioni e le ristrettezze, quando arrivava il Natale ogni famiglia faceva di tutto per imbandire la tavola con tutte le prelibatezze della tradizione perché si trattava di una festa aspettata per tutto l’anno, a cui si teneva davvero tanto. I più indigenti chiedevano un anticipo dai proprietari terrieri presso cui lavoravano sulle giornate di lavoro della mietitura perché potessero comprare quei prodotti tipici natalizi quali baccalà, frutta secca ecc perché tutto andava consumato “ pe devozione” come si usa dire ancora oggi, mescolando il sacro al profano. In effetti, il Natale è sempre stato la festa religiosa più importante dell’anno, che coinvolgeva tutti e che ancora oggi ci coinvolge perché ha radici profonde. Oggigiorno questa festa ci affascina con le sue luci, con i colori, gli addobbi, i regali, anche se il Natale che viviamo oggi è il Natale dell’opulenza e del consumismo che ha perso molto di quel significato profondo che ci accompagna da oltre duemila anni: la nascita di quel Bambino e il messaggio che ogni anno ci torna a portare. Quello che di bello ha conservato il Natale è che anche oggi riesce a riunire le famiglie come un tempo. Di certo un tempo il Natale si trascorreva in maniera più semplice e povera ma intensamente sentito e vissuto con gioia tra gli affetti di famiglia. L’attesa cominciava con la novena all’Immacolata, dal 29 novembre al 7 dicembre e dall’ Immacolata si incominciavano a contare i giorni mancanti al Natale, un detto infatti diceva: - A Cuncetta, Natale diciassette per dire che mancavano 17 giorni. Seguiva poi la novena a Gesù Bambino , dal 15 al 23 dicembre. Il suono delle zampogne casa per casa era il segno che il Natale si avvicinava, e conferiva all’attesa quella componente di sacralità legata all’evento, rinnovando di anno in anno la celebrazione di antichi rituali. Gli zampognari erano pastori e contadini con la passione per la musica che nel periodo di Natale scendevano dai monti della Ciociaria per venire a suonare le novene di casa in casa e rimanevano in paese per tutta la durata della novena. Venivano verso il 20 novembre per accordarsi con le famiglie che volevano fare la novena e portavano in dono, quasi un pegno, una cucchiarella di legno , costruita da loro stessi. Il compenso veniva loro corrisposto l’ultimo giorno, a novena ultimata e un tempo consisteva in beni di prima necessità: vino ,olio ecc. ecc. Venivano con le cioce ai piedi, con il mantello nero e il gilet di lana di pecora. Ancora oggi gli zampognari vengono a Mondragone sulle orme paterne e grazie alle nuove generazioni, rinnovano e portano avanti la tradizione. Oggi suonano solo, ma un tempo cantavano anche le novene. I testi non venivano scritti ma imparati a memoria perché allora il grado di analfabetismo era molto alto ed è per questo motivo che di un testo ci sono varie versioni , ognuno li eseguiva come li ricordava e se non li ricordavano, cambiavano il testo a proprio piacimento. A Mondragone così cantavano gli zampognari:
E’ giorno d’allerezza
Da stammatina
E’ nato Nostro Signore Gesù Bambino
E’ nato in una grotta
Puvurieglio
E mmiez a nu bove e a n’asinieglio
Venite tutti quanti
Cu ri pasturi
A salutà a Gesù Nostro Signore
Appena terminata la novena all’ Immacolata si incominciava ad allestire il presepe, fin quando poi non è nata la tradizione anche dell’albero di Natale. Su un piano rialzato si costruiva uno scorcio di paesaggio, dove si cercava di riprodurre la montagna, il fiume, il ponte; la neve si riproduceva con la farina e con fiocchi di ovatta, il muschio che si andava a raccogliere era il tappeto erboso su cui venivano sistemate le poche statuine di gesso che si possedevano: il pastorello con la pecora sulle spalle, la lavandaia, il carrettiere, lo zampognaro vicino alla capanna, il fanciullo con le braccia aperte e con la bocca spalancata per lo stupore di essersi trovato davanti a Gesù; c’era sempre qualche pastorello con una gamba rotta ma con tanti accorgimenti si cercava di farlo stare in piedi. E così tra preparativi e attesa, arrivava la Vigilia.
In ogni casa la sera della vigilia era tradizione bruciare il ceppo “ru capufuoco” che doveva rimanere acceso per tutta la notte non solo perché doveva durare fino alla mezzanotte ma anche perché c’era la credenza che la Sacra Famiglia si venisse a riscaldare. Già durante l’anno, il capofamiglia in giro per la campagna teneva d’occhio la grandezza dei ceppi che venivano scavati, si sceglieva quello che gli sembrava più bello e più grande, che doveva ardere la sera della vigilia e lo metteva ad asciugare, poteva essere di quercia o di pino, di ulivo ma anche di alberi da frutto. Qualcuno lo faceva durare addirittura fino all’Epifania; se non era abbastanza grande , si alimentava il fuoco con altra legna per farlo bruciare più lentamente. Oggi la tradizione del ceppo è quasi scomparsa perché il camino è stato soppiantato da altri mezzi di riscaldamento ma un tempo esso, oltre a riscaldare, aveva per la famiglia un antico significato, era un luogo d’incontro, di relazione e di confronto.
Nessun commento:
Posta un commento