domenica 28 febbraio 2021

TEGN A MARZ

TEGN A MARZ: UNA TRADIZIONE MONDRAGONESE Da sempre si dice che Marzo è pazzo perché, pur essendo il primo mese della primavera, è caratterizzato da una grande variabilità metereologica.

Marzo era visto, una volta ma ancora oggi, come la coda dell’inverno e con il freddo poteva ancora causare febbre, tosse e raffreddamenti vari ed era per questo molto temuto nell’antica società contadina.
Quando ci si ammalava, l’ unico modo per difendersi era quello di stare al caldo, sotto al focolare e lì, inevitabilmente ci si sporcava e ci si tingeva di nero con la fuliggine, per questo si soleva dire che Marzo          “ tingeva” ; allora, come per rivincita, si faceva un gesto, il 28 febbraio, il giorno prima dell’arrivo di Marzo, che qualcuno ancora compie, scherzoso e scaramantico, quello, cioè di prendere un tizzone spento e di tracciare un segno sulla parete interna del focolare, dicendo :
- Marzu pazz , prima che tu tigni a me, io te tegno a te!
Sembrerebbe un gesto irrazionale, che oggi potrebbe far sorridere ma occorre considerare che un tempo le malattie da raffreddamento non erano curabili come oggi e, se sottovalutate, si potevano trasformare in qualcosa di più serio e risultare fatali, c’era molta più paura al riguardo, che si cercava di esorcizzare come si poteva, anche con un gesto simile.
Da noi si dice anche:
Si Marz ‘ngrogna
Te fa zumbà l’ogne
cioè se Marzo si impunta e fa abbassare eccessivamente le temperature, ti fa saltare le unghie dal freddo.
Un altro gesto scaramantico era quello di tagliarsi una ciocca di capelli in questo mese sempre per scongiurare la malattie che marzo poteva procurare.

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venerdì 19 febbraio 2021

LA CANTATA DEI MESI


LA CANTATA DEI MESI. Durante il Carnevale era una delle tradizioni più sentite a Mondragone, rimasta in voga fino agli anni ‘60. Si trattava di una rappresentazione allegorica dei Mesi, legata strettamente al ciclo annuale dell’agricoltura, che iniziava con il nuovo anno, una sorta di rito che aveva una funzione beneaugurante, quella cioè, di evocare buoni auspici per raccolti abbondanti ma vi era implicito anche una sorta di omaggio e di ringraziamento per ciò che Madre Natura offriva nelle varie stagioni dell’anno. Con la personificazione dei Mesi si intendeva rappresentare il Tempo, che scandiva i ritmi delle stagioni e del lavoro umano.

La manifestazione era diffusa in molti centri agricoli italiani. Ogni comunità conserva i suoi testi e le sue performance ma tutte prevedono la figura di Capodanno oltre a quella di Pulcinella al sud e Arlecchino al nord, nelle vesti di presentatore e cerimoniere. Le sue origini si fanno risalire al ‘700 ma si pensa che sia ancora più antica, retaggio, secondo gli studiosi, degli Ambarvalia e dei Saturnalia, una serie di riti che si svolgevano nell’antica Roma per propiziare la fertilità dei campi.
La rappresentazione veniva eseguita da 14 persone, una per ogni mese più Capodanno e Pulcinella, che fungevano da presentatori. Gli attori che impersonavano i Mesi, cavalcavano degli asini, solo Capodanno cavalcava il cavallo mentre Pulcinella procedeva a piedi. Partivano dalla Porta di Mare e si esibivano nei punti centrali di ogni rione, dove tutti accorrevano. Ogni attore nel suo abbigliamento e negli ornamenti tendeva a simboleggiare il mese che rappresentava, così Maggio era ornato di fiori ,Giugno di grano ecc e ognuno portava un oggetto, di solito di lavoro, usato nei campi nel periodo rappresentato. Capodanno e Pulcinella presentavano l’allegra brigata e poi chiamavano ogni Mese a cantare. Solo il mese di Aprile era impersonato da una donna, che cantava: Io song Aprile e so na giovinetta!
I MESI, dai costumi pittoreschi, attraverso un canto dai tratti virili e ancestrali e con l’utilizzo di termini desueti, che quindi non si ritrovano più nel nostro dialetto, costituiscono un segno evidente nella storia del folclore mondragonese, che evoca un mondo rurale, che è andato via via scomparendo.
  • GENNAIO
  • Je so Gennaio di prima intratura, a caccià uocchie cu ri putaturi- nisciuno juorno li farò putare- castigare li voglio li bestemmiaturi – chi bestemmia il mese di Gennaio e isso cu la cappa e je cu ll’uscio – chi mi bestemmia ce lo manno in froscio.
  • FEBBRAIO
  • Je so Febbraio e cu l’erba che nasce e ‘nterra ce la coglio la viola – la pecorella va a la muntagna a pascere e da chistu mese ru rente s’ammola – che terre pantanose e luoghi vasci e ci cantala ranonchia senza cola. Ogni aucieglio canta allegramente: ecco la primavera che mò s’appresenta.
  • MARZO
  • Je so Marzo e cu la mia zappella e cu pane e puorri faccio ru digiuno – ogni villano chistu mese aspetta pe jttà casacche e pellicciumm. Nun ve fidate de la mia fermezza e ci tengo le cervella a 35 – ora vi faccio ricchi e ora poveri- ora vi faccio asciutti e ora ‘nfusi.
  • APRILE
  • Je so Aprile e cu la lapa aspetto e guarnisco terra e arberi all’agnota – ogni aucieglio fa il suo versetto e fioriscono le muntagne cu ru calore
  • E ru spiziale cu la mia rosetta po guaragnà patacche e dogadori – Je so Aprile e so na giovinetta e a Maggio lo dono chistu ramaglietto.
  • MAGGIO
  • Je so Maggio e so maggiore di tutti –so chist’alimenti, d’oro e d’argento ri guarisco a tutti – giacché siamo tutti allegramente –sunate chitarre, viulini e arti strumenti ché pure sta bestia mia sta allegramente, e parto e vaco a fare le bone spese e in fiore vi lascio a voi chist’altri mesi.
  • GIUGNO
  • Je so Giugno e cu la mia sarrecchia che bello quanno sto ‘ncicerchia – ci tengo na pignata cu na cuperchia e cu sta cucchiara che sempe spellecchia e si pe ‘ddinnanzi avessi a chella vecchia, ru cuoglio ri tagliarria cu sta sarrecchia, po me mangio ru riesto de sta minestra e treciento e sei carrati la mia barrecchia.
  • LUGLIO
  • Je so Luglio e cu ru carru rutto- ru carro r’aggiu rutto a la maesa- tocca cumpagnu mji, tocca l’asciutto n’acqua ca vene e perdimmo ogni spesa- si sta regna mia è chiena di ben frutto – ogni treciento tummuli ne farò una meta e si stu carru mio rutto carrea justo, putimmo jre cantenno la Carresa.
  • AGOSTO
  • Je so Austo e cu l’infermeria e ru mierco m’a urdinato sta supposta- mi vatte la capa ‘nfermeria e comme vattesse cu stu maglio a posto ciaggiu azzeccati tutti sti spiziari e pe nun da aurienzia a vui e a la faccia vosta, je pe dispietto de miereci e merecine, rimane me la mangio chest’aglina.
  • SETTEMBRE
  • Je so Settembre e cu la fica moscia e l’uva muscarella mo se fernisce – se quarche donna avesse la contoscia ce vaco pe la ntuppà e ce passo liscio- e si pe sta vota so ghiuo ‘nfroscio, cumprate limunciegli me l’alliscio – quanne sienti alluccà chigli carruoti le mele meje ce vanno na pacca a rrota.
  • OTTOBRE
  • Je so Ottobre e cu ri begli frutti e ri frutti miei songo cchiù superiori. Chest’uva fresca e nera sazzea a tutti , a ru ricco a ru povero e a ru villano. Le cantinelle l’aggiu vinchiute tutte pe fa parlà Tedeschi e Italiani. Dietro faccio sorgere dduje condotte pe dispietto de ri miereci e spiziali.
  • NOVEMBRE
  • Je so Nuvembree so lavoratore e ‘nterra aggiu semmenato la semmenta – l’aggiu semmenata de bbona staggione e, giacché ci siamo tutti allegramente, m’abbisognerebbe nu lavoratore e ‘nn’ato che me mantene sta jummenta – questo è pe gl’auciegli e questo lo dono a voi, signori belli.
  • DICEMBRE
  • L’urdimo di tutti, la sculatura de chist’arti misi- ce tengo na pignata di belli frutti – carne de puorco fresco l’aggio acciso, poi mi abbìo pe chist’arti fusti , chi tene cchiù vino pe chist’ artri mesi: ci tengo na vutticella de vino verduosco e na bella mugliera quanno me l’abbusco.
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martedì 16 febbraio 2021

F(E)BBRAR , CURT E AMAR

Così recita il detto mondragonese relativo a Febbraio e che si riferisce non solo alla brevità di questo mese rispetto agli altri ma anche a un suo sapore per così dire “amaro”. Era amaro per le famiglie contadine, che stentavano a tirare avanti e che si venivano a trovare in difficoltà in questo mese, poiché in esso, che coincideva quasi con la fine dell’inverno, le provviste alimentari invernali di grano, fagioli ecc, alla base dell’alimentazione contadina, stavano per finire, e allora aumentava la preoccupazione e l’ansia. Il freddo eccessivo, poi, metteva a dura prova il fisico, ieri come oggi, e poteva procurare gravi malanni e in extremis, anche la morte perché si sa che per la vita c’è bisogno di calore , in tutti i sensi, non del freddo. A questo proposito la saggezza popolare mondragonese ci riferisce un altro detto, che quasi sicuramente deriva da un racconto e che suona così: “Chiglij cu lu pan murett e chiglij cu lu fuoc campett”. Ed è per questo che, per l’istinto di sopravvivenza, si sta tutti rintanati in casa, al caldo, bestie e cristiani, a resistere e a trascorrere quel tempo nel migliore dei modi, aspettando il bel tempo, cercando di uscire il meno possibile e se proprio è necessario, lo si fa ben coperti e tutti intabarrati, lasciando scoperti solo gli occhi al punto tale che neanche si riconosce la persona. A volte, però, questo mese bizzarro e capriccioso presenta anche belle giornate con un sole caldo e piacevole, quasi da primavera inoltrata, tale da convincere le persone ad alleggerirsi e ad uscire e gli alberi a fiorire e il giorno dopo magari si presenta con un tempo da lupi e con certi venti gelidi di tramontana, tali da seccare tutti i fiori appena schiusi perché gli alberi, poverini, si erano fidati del dolce tepore del sole. E così ci fa ricredere e ci rimette tutti in riga, ognuno al suo posto e ai suoi comandi, il caro Febbraio.

Sarà per questo forse che proprio in questo mese si festeggia il Carnevale, la festa più allegra, colorata e rumorosa dell’anno con balli, canti, travestimenti perfino grotteschi, a volte, che più che di divertimento sanno di ribellione e trasgressione. Probabilmente sì, in fondo, anche per questo, perché con esso si vuole affermare la nostra voglia di vivere, di divertirci, di contrastare la paura della morte, reagendo e trovando il modo anche nelle difficoltà di tirarci su , di non farci sopraffare dalla natura inclemente e ostile e per una maggiore rivincita su Febbraio, qui a Mondragone, a Carnevale, non ci facciamo mancare lasagna e tabacchere.
E, allora, anche se ci battere i denti, grazie a Febbraio, “curt e amar".


sabato 13 febbraio 2021

UNO SCHERZO DI CARNEVALE

UNO SCHERZO DI CARNEVALE

Una volta, in occasione del Carnevale, alcune ragazze che abitavano in uno stesso portone a corso Umberto meglio identificato come “mmiez a ru gigli(o)” si misero d’accordo per preparare il fantoccio di Carnevale , come si usava fare una volta a Mondragone. Chiamarono le loro amiche di un vicolo vicino per farsi aiutare. Jà vuagliò, r’amma fa beglio eh, pecché oggi c(i)' amma divertì! – Eh, eh, mettimece ru cappieglio e a pippa! – E nun ce scurdamme ru giurnale! Se la spassarono tutta la mattinata a riempire il pupazzo di paglia, lo imbottirono ben bene e lo sedettero fuori al portone in bella vista. Se lo guardavano soddisfatte il loro capolavoro, e chi gli aggiustava il cappello e chi gli occhiali, erano precise e minuziose nella cura dei dettagli, pensando al futuro divertimento; poi si divisero dicendo: -Ammu fernut, allora ce verimm oggi, mo jamm a mangià! E le altre: - Sì,sì, vuagliò, oggi ce r’amma chiagne buon a Carneval! Così, tutte d’accordo, se ne andarono contente. Intanto, però, quando le amiche si allontanarono, a quelle che rimasero venne un’idea: - Oh, vulimm fa nu scherz a l’amich nost? –Sì, sì, e comm?- Facimm annasconn a Salvator rent a ru Carneval, lor nu lu sapen, quann vennen e s’avvicinan, chigli l’ acchiapp e l fa mett paur! – Ah, ah, che bella pensat! Mangiarono in fretta e andarono a chiamare il ragazzo, proponendogli di sostituirsi al fantoccio e lui si prestò molto volentieri allo scherzo. Così le bricconcelle in fretta e furia disfecero il “Carnevale” e fecero infilare il ragazzo nei vestiti. Gli coprirono bene la faccia con la maschera, con gli occhiali e con il giornale, la testa con il cappello, un po’ di paglia che fuoriusciva dai pantaloni e dai polsi, sembrava proprio il fantoccio che avevano preparato. All’ora stabilita arrivarono le amiche, tutte infervorate, e per far durare il gioco più a lungo, le spudorate facevano finta che “Carnevale” fosse ancora vivo. E la prima incominciò: - Uh, Carnevalu mij, e comme si beglij! Tene pure a pipp u rì! Ah, ah! E giù a ridere. E un’altra: - E che begliu cappiegl! E continuavano a deriderlo! E gli calcavano il cappello in testa. E il giovane zitto, stava al gioco. E così continuavano con tanti apprezzamenti non molto lusinghieri. Ad un certo punto una delle più facinorose, pensando che fosse arrivato il momento, esclamò:- Uh, vuagliò, ma chiglij è muort! E le altre in coro: - E’ muort?!!!! – E comm? Tutte a piangere e a strepitare con quanto fiato avevano in corpo, se la volevano fare una sfogata perlomeno con il Carnevale, e strepitavano e starnazzavano a più non posso. E una : - Carnevalu mij, ma pecchè si muort? E un’altra di rimando: - Ha mangiat tropp, i ric(o) che è schiattat! E tu ce pazzje chell che s’a firat de mangià? Pullast, lasagn, bucchinott e tabaccher, muzzarell, vruoccol e sauciccia, prusutt, supressat e per de puorc! Vuardat, ventresc e sauciccij ri jescen pur da rent a l sacch da giacchett e da rent a ru saccarin , n’atu ppoc ri jescen pur da l urecchij! Ah, ah ah! Che svergognate, ma se ce l’avevano messa loro la salsiccia e la pancetta nelle tasche e nel taschino al povero Carnevale! E una di loro intonò la canzone, che si cantava allora:
Carneval scialone scialone………. S’a calat ru cauzone
Di gioia di gioia e chiglij mo more e chiglij mo more e collera
Carnevale pecchè si muorto? A ‘nzalata sta rent a gl’uorto
Di gioia …..
E si sapevo che tu muriv t’accerev n’ata gallina
Di gioia….
E’ venut ru mierec de Sparanis a ritt che Carneval mo mor accis
Di gioia ….
Pam ( e si ode lo sparo) Uh, è muort, è muort e ancora ‘ncriccat ru ten!
Ru che? ru che ? Ru cuoppol ‘ncap!
A questo punto una delle ragazze che avevano organizzato lo scherzo, disse: - Eh, ma i mo c(e)’aggia ra nu bacij a chigliu Carnevalu mij , vuagliò, accustammece! – Sì, sì- risposero le altre: Pure nuje c r’amma ra pecchè chiglij è troppu beglij ! Ma tutte quant c’aramma ra- E cert, è giust, poveru Carneval! E chi di qua e chi di là lo abbracciavano , quando il giovane all’improvviso cacciò un urlo terrificante:- Ahhhhhhhhhhhhhhh! E alzandosi cercava di acchiappare le più coraggiose, quelle che lo avevano abbracciato per prima. Ora le spavalde scappavano all’impazzata, con il cuore in gola, chi di qua chi di là, con tanta paura che però, in breve, si trasformò in riso. – Ah, ah, ve r’ammu fatt ru scherz, eh? Dissero le ragazze del portone alle altre – A Carnevale ogni scherzo vale!
(Ringrazio la cara nonna di Tiziana Altopiedi, Caterina Fusaro, che ci raccontò questo divertente episodio alla scuola elementare).
La foto di Federico Villoni è tratta da un post di Andrea Capuano.
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martedì 9 febbraio 2021

"E mo c(e) a scicch na mol a santa B(e)llonia!"

"E mo c(e) a scicch na mol a santa B(e)llonia!"

Così recita un detto mondragonese, riferendosi con esso ad una persona avara, poco disponibile nel “dare”, una persona da cui si è sicuri di non riuscire a ricavare nulla. Con questo detto abbiamo tacciato per tanto tempo la povera santa Bellonia di avarizia. In realtà la fantomatica santa Bellonia altri non è che santa Apollonia vergine e martire, vissuta nel III sec dC, ad Alessandria d’Egitto. La storia del martirio della Santa ci è raccontata da Eusebio da Cesarea, il quale riporta un brano della lettera del vescovo Dionigi di Alessandria. Tra il 249 e il 250,in Alessandria d’Egitto scoppiò una sommossa popolare contro i Cristiani, eccitata da un indovino pagano. Apollonia, un’anziana donna cristiana, non sposata, che aveva aiutato i Cristiani e fatto opera di apostolato, fu catturata insieme gli altri e venne percossa al punto da farle cadere i denti. Secondo la tradizione popolare, i denti le furono divelti con le tenaglie, e i soldati infierirono su di lei con particolare crudeltà . Fu poi preparato un gran fuoco per bruciarla viva se non avesse abiurato. La Santa, forse per sottrarsi ad ulteriori torture, che avrebbero potuto indebolire la sua volontà, preferì gettarsi tra le fiamme, dove morì, ritenendo senza dubbio che il suicidio non costituisse una colpa in quella situazione. E’ stata tale la devozione per la santa martire Apollonia , che dal Medio Evo in poi si moltiplicarono i suoi denti-reliquie miracolosi, venerati dai fedeli e custoditi nelle chiese dell’Occidente, al punto che papa Pio VI , che era molto rigido su queste forme di culto, fece raccogliere tutti i denti e, deposti in un bauletto, che raggiunse il peso di tre kg, li fece gettare nel Tevere. Questo episodio ci aiuta a capire quanta impressione, meraviglia e ammirazione suscitò il martirio della Santa nel mondo cristiano per i suoi aspetti singolari. Santa Apollonia, la cui festa si celebra il 9 febbraio, è invocata in tutti i malanni e dolori dei denti. Il suo attributo nell’iconografia è una tenaglia che tiene stretto un dente. Pur essendo una donna anziana, nell’iconografia sacra è raffigurata come tutte le sante vergini, in giovane età.
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LA CANZONE DI ZEZA

LA CANZONE DI ZEZA era una farsa carnevalesca che veniva rappresentata a Napoli e in tutta la Campania nel periodo di Carnevale, a Mondragone tale tradizione si è protratta fino agli anni ’50.

La Canzone, in breve, racconta la storia d’amore tra la figlia di Pulcinella, Vicenzella , e don Nicola, studente calabrese, amore ostacolato dal padre, che teme di essere disonorato. Pulcinella raccomanda alla moglie Zeza di tener chiusa la figlia e di non farla praticare con nessuno mentre quest’ultima è di ben altro avviso, in quanto intende far divertire la figlia “cu cient nnammurat, cu prieut, signur e cu li surdat”. Pulcinella, poi, racconta che tornando a casa, ha trovato don Nicola nascosto sotto al letto , Zeza risponde che si è sbagliato , che si trattava di don Fabrizio, il padrone di casa, che voleva l’affitto del mese passato. La farsa prosegue tra battute spassose e colpi di scena . Nella scena finale Pulcinella reagisce violentemente, cercando di colpire la moglie, la figlia e il pretendente ma viene vinto e immobilizzato da don Nicola e alla fine acconsente, anche se malvolentieri, alle nozze.
A Mondragone la “pazzia” , così veniva chiamata la rappresentazione, si preparava in casa di Giovanni D’Annolfo, abitazione che si trova tuttora in via Elena, nel portone di fronte a via Crocifisso, una traversa della suddetta strada. Era là che da un mese prima si cominciava a “concertare”, cioè a preparare la scenetta. I personaggi erano quattro: la mamma, il padre, la figlia e il prete( don Nicola era vestito da prete perché in passato molti giovani, provenendo da famiglie povere, non si potevano permettere gli studi ed entravano in seminario per studiare ma poi non tutti diventavano preti). Le parti femminili erano interpretate da uomini perché le donne non potevano essere esposte alla pubblica rappresentazione. La mamma era impersonata da Giovanni D’Annolfo, la figlia da Peppe Ciomma, il padre da Antimo Queleroso , il prete da Nicola D’Annolfo,( fratello di Giovanni); la famiglia di quest’ultimo poi fu soprannominata “Zeza Zeza”. Da lì partiva il corteo che si dirigeva verso la piazza, dove si faceva la prima rappresentazione , davanti al negozio di generi alimentari di Attilio Martino; il corteo girava , poi, per tutto il paese e la rappresentazione veniva ripetuta nelle strade più importanti. Nicola, il figlio di Giovanni D’Annolfo,( detto Nicola ru scarpar, collaboratore scolastico per tanti anni nella scuola elementare, al plesso Incaldana di via Elena) seguiva il corteo con l’asino con la sporta, dove metteva le offerte: qualche bottiglia divino o altri generi alimentari che la gente offriva.
La ZEZA vide probabilmente la luce a Napoli nella seconda metà del ‘600, al tempo in cui Pulcinella nei disegni di Callot (disegnatore francese) era associato alla moglie Lucrezia (personaggio della commedia dell’arte), di cui Zeza era il diminutivo. Da Napoli si diffuse nelle campagne circostanti con caratteri sempre più diversificati negli altri territori del Regno di Napoli. Fino alla prima metà dell’ ‘800 la ZEZA si rappresentava nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie , nelle piazze, senza palco, ad opera di popolani, attori occasionali mentre a Napoli già nel secondo ‘800 assunse i caratteri di spettacolo teatrale nei teatri frequentati dalla plebe, dove il pubblico interloquiva con gli attori nel corso della rappresentazione con “sfrenatezze di gergo e di gesti”. Questo tipo di divertimento terminò già verso la fine dell’ ’800 perché proibito dalla polizia per le mordaci allusioni e i detti troppo licenziosi e osceni.
La ZEZA fu studiata con attenzione da filosofi, musicologi e antropologi a partire da Gian Battista Basile, che ne parlò per primo nel ’600, a Benedetto Croce, a Pier Paolo Pasolini,a Roberto De Simone.
Essa rappresentava, nel teatro popolare, il conflitto sempre attuale tra vecchi e giovani nonché l’atteggiamento di ribellione dei figli all’autorità paterna, la vittoria dei giovani e la risoluzione del conflitto nel matrimonio con la conseguente ricomposizione dell’equilibrio familiare.
Il teatro del Carnevale in tal modo metteva a nudo e rappresentava in chiave grottesca scene di vita familiare caratterizzate da notevole conflittualità e violenza.
L’ appellativo ZEZA si usa ancora oggi per indicare una donna sguaiata e di facili costumi.
Del testo mondragonese della ZEZA si è persa completamente la memoria ma è possibile ascoltare la versione della Nuova Compagnia di Canto popolare, così come veniva cantata a Napoli.