sabato 29 luglio 2023

IL LUTTO A MONDRAGONE

 Il racconto “Angiulu mij, cu st’uocchi lucent…”ci offre qualche spunto di riflessione sulle usanze legate al lutto nel nostro paese, alcune delle quali vanno man mano scomparendo.
Nel racconto si avverte il contrasto tra due generazioni differenti riguardo al lutto. Le parole di rimprovero dette dalla madre al figlio denotano l’intransigenza, la severità eccessiva di un tempo anche per quello che concerne la morte. La madre, anche se addolorata, avrebbe dovuto trovare la forza di continuare a preparare da mangiare per i figli, che avevano tutto il diritto al nutrimento.
I figli, pur essendo addolorati per la morte del padre, non capiscono la rigidità del comportamento materno, che non tiene conto delle loro necessità.
Se oggigiorno si cerca di aiutare le persone ad elaborare e superare un lutto con la psicoterapia, una volta, al contrario, secondo un’errata concezione di dovere e di rispetto per la morte, si tendeva ad inasprire ancora di più la situazione con regole, divieti inutili e poco umani, derivanti da una cultura chiusa e molto arretrata.
Non solo non si doveva pensare a mangiare, a cucinare ma anche ad uscire; in tempi più recenti non si poteva accendere la tv, non si poteva andare al mare; anche se c’erano bambini piccoli, che ne avevano bisogno, era disdicevole perché si doveva rispettare il lutto.
Tutto era vanità, secondo una concezione medievale, anche il lavarsi. Gli zingari, ad esempio, quando moriva qualche familiare, non si radevano per mesi. Bisognava concentrarsi solo sulla realtà della morte.
Quando muore qualcuno, a Mondragone, c’è l’usanza di andare al bar e ordinare il caffellatte o il the con i biscotti o altri dolci da colazione e mandarli alla famiglia, che ha passato la notte a vegliare il defunto ma molti lo portano anche da casa.
Si usava e si usa ancora portare “ru cuonzolo”, cioè portare da mangiare alla famiglia del defunto perché, essendo il momento della morte di un familiare drammatico e devastante, nessuno dei familiari ha il tempo o la forza di preparare da mangiare.
La parola “cuonzolo” viene dal verbo consolare , che spiega bene il nobile motivo da cui è nata l’usanza, quello dell’ umana solidarietà. Si tratta di un’usanza non solo mondragonese ma di origini napoletane.
Erano i parenti ma anche i compari e gli amici più stretti a portare i generi alimentari di prima necessità, lo stretto necessario per permettere ai familiari di rifocillarsi, magari del brodo, carne , pane, frutta, il tutto fatto con discrezione e senza arrecare disturbo , facendo sentire l’affetto e la vicinanza ed è così che si fa ancora oggi.
Con il tempo, poi, siccome entrano in gioco sentimenti umani di gelosia, di voler far meglio degli altri, di non voler sfigurare ecc., si è incominciato a far a gara a chi faceva di più e meglio. E così si preparavano pranzi completi, anche con più portate. Tutto veniva trasportato nei nei cuof(a)ni: servizi di piatti, bicchieri, posate tovaglie, perché niente doveva esser preso dalla casa del defunto, e poi il cibo già pronto per essere servito.
E così magari proprio quando i familiari volevano starsene un po’ in santa pace a metabolizzare e ad accettare pian piano il dolore, dovevano, invece, partecipare a quei pranzi troppo importanti ed elaborati per l’occorrenza, rispondere alla conversazione anche se non c’era voglia. In quel caso quei pranzi diventavano un’imposizione, una convenzione sociale poco rispondente alle vere esigenze ed è per questo che sono andati a finire.
Se il defunto aveva molti parenti, i cuonsoli duravano parecchi giorni . Erano espressione di affetto e solidarietà che poi, con il tempo, andavano ricambiati, all’occorrenza.
Nei giorni seguenti poi, dopo le esequie, c’era l’usanza, e c’è tuttora, di fare la visita di condoglianze, portando in dono zucchero, caffè e biscotti.
Anche queste visite non sempre sono gradite perché quando le persone sono afflitte dal dolore, magari vogliono riposare un po’, invece devono star lì a spiegare com’è successo e come è andata, prima ad uno e poi ad altri, man mano che si presentano e così, anziché essere di aiuto e consolazione, queste visite diventano una sopportazione per i familiari del defunto ed è per questo che anche quest’usanza è andata scomparendo. Lo si capisce chiaramente dalla frase che le famiglie fanno apporre sotto i manifesti funebri “ Si dispensa dalle visite”.
Anche l’usanza di portare i fiori è in diminuzione. L’usanza di portare i fiori è molto antica, è un’espressione di amore e vicinanza sia al defunto che alla famiglia. Già i Greci e i Romani utilizzavano i fiori per ricorrenze speciali, dalle più felici alle più dolorose.
Qui da noi, il carro funebre trasportante il feretro, è seguito da un altro carro pieno di ghirlande, corone e cuscini di fiori, in alcuni casi anche da due. Un po’ alla volta la situazione è cambiata, oggigiorno si può osservare che il feretro è seguito da un solo carro con i fiori, molti di meno rispetto a prima, appena qualche ghirlanda o cuscino dei parenti più stretti.
I fiori, pur essendo molto belli, durano poco, il tempo del tragitto dalla casa del defunto al cimitero, dove vengono appoggiati a terra o ad una parete e lasciati lì a seccare e questo, probabilmente, con il tempo, è stato considerato un inutile spreco.
La Chiesa raccomanda di onorare i defunti con le preghiere, con le Messe di suffragio e con le opere di bene. Sarà per questo che sotto ad alcuni manifesti funebri si legge la scritta “Si dispensa dai fiori”.
C’era poi l’usanza di vestirsi di nero, anche questa un’usanza quasi scomparsa, a dire il vero. Anche gli uomini, una volta, indossavano il lutto o con una fascia al braccio o con un bottone ecc.
Ma erano le donne ad essere penalizzate di più. Il lutto veniva quantificato in base ai casi: mariti, mogli, figli, suoceri, genitori, fratelli e così via.
Le vedove giovani, ad esempio, un tempo mettevano il lutto per tutta la vita ed anche d’estate, con il caldo torrido, dovevano indossare le calze e il foulard. Se avessero fatto il contrario, sarebbe stato sconveniente e sarebbero state giudicate male, bisognava soffrire in silenzio per rispettare il lutto come la società imponeva.
Capitava spesso, in passato, vedere donne sempre vestite di nero perché, siccome un periodo di lutto come minimo durava tre anni, succedeva che una volta moriva il padre, poi la madre, i fratelli, le sorelle , i suoceri; mentre si finiva di osservare il lutto per uno, si doveva cominciare per un altro della famiglia e così non si finiva mai. In certi casi, nei tempi più remoti, l’abito nero veniva imposto perfino alle bambine, che, poverine, lo indossavano inconsapevoli.
Viene da chiedersi se il vestito nero sia una forma di rispetto per il defunto o qualcos’altro.
Potrebbe essere la risposta soggettiva alla morte del proprio caro, la protesta contro la morte che ha imposto la perdita. Quel nero può voler dire inaccessibilità a tutto e a tutti, se è nero il vestito, è nera l’anima di chi lo indossa perché quello è lo stato in cui ci si sente.
Può essere una forma di protesta, di collera verso la vita e la morte, vuole esprimere la negazione, la non accettazione, quasi un urlo di rabbia e di dolore verso il mondo intero.
Eppure sappiamo che ci tocca accogliere tutto quello che la vita ci presenta, non farlo ci mette in conflitto con noi stessi e con l’universo intero. Con grande sforzo e un po’ alla volta bisogna imparare a convivere con quell’assenza e ritrovare la serenità e, soprattutto, non far pesare agli altri il nostro dolore né con l’abito né con il comportamento.




lunedì 24 luglio 2023

ANGIULU MIJ, CU ST’UOCCHI LUCENT…




Un uomo possedeva un pezzo di terra in montagna e tutti i giorni, insieme alla sua famiglia, vi si recava a lavorare.

La moglie portava la verta come si usava un tempo, cioè la merenda, che si consumava durante la pausa perché si tornava a casa solo nel tardo pomeriggio.
Un giorno l’uomo morì e i parenti per qualche giorno portarono da mangiare alla famiglia, come si usava a Mondragone. Passati quei giorni, però, lei continuava a non cucinare.
I figli, che erano giovani, avevano fame e dopo una quindicina di giorni, uno di loro disse alla madre: - Oi ma, vulite cucinà duie maccarune, ce sentimm fam!
E lei, indispettita, rispose: - Eeeeeeh! Patet sta sott a nu metr de terr e tu piens a mangià! Pigliet scuorn! E così andava avanti la situazione.
Dopo aver osservato il periodo del lutto, secondo la tradizione, la famiglia tornò a lavorare in montagna ma la madre metteva nella verta solo pane e acqua e niente altro.
I figli che stavano lì a zappare tutto il giorno, incominciarono a stancarsi di mangiare solo pane e chiedevano alla madre di aggiungere qualcosa ma lei, sempre evasiva e pensierosa, non lo faceva.
Passò del tempo e la situazione non cambiava. Allora i figli incominciarono a dire: - Ma tu vuò veré che chest se vuless ammarità?!
E incominciarono a dirle che era venuto un tale, quando lei non c’era, che la voleva conoscere per sposarla.
Lei, incuriosita, voleva saperne di più. I figli tergiversavano perché non era vero e non sapevano cosa dirle. Ma lei insisteva: - E comme se chiama? E comme iè? – Se chiam Angelo , è iaut e forte! -rispose uno di loro.
Ogni giorno lei chiedeva notizie e insisteva perché lo voleva conoscere. I figli non sapevano più come fare per portare avanti l’inganno e alla fine per togliersela di torno, le dissero:- A ritt che ven riman, quann sta pe mbruculì, accussì ve cunuscite! Pensavano che la madre, non vedendo presentare nessuno all’ appuntamento, sarebbe tornata a casa delusa.
La donna preparò tante cose buone da mangiare e andò all’appuntamento sulla montagna. Aspettava, guardava e guardava ma non vedeva venire nessuno, alla fine si fece proprio buio ma lei non si decideva ad andarsene.
Ad un certo punto, le sembrò di vedere due occhi fosforescenti, che si avvicinavano.

Poi si sentì afferrare con forza e si sentiva mordere e, pensando che il suo pretendente fosse troppo focoso e frettoloso nell’approccio amoroso, disse: - Angiulu mij cu st’uocchi lucent, nun me tirà sti vas accussì ardent, vien riman che ce tien ru tiemp!
Ma non erano baci, erano proprio morsi, di un lupo forse o di qualche altro animale selvatico, che attratto dall’odore del cibo, era corso verso di lei.
Il giorno dopo i figli, addolorati ne trovarono i resti e commentarono, dispiaciuti: - A vulut ess!

Grazie a Clara Ricciardone e alla sua mamma, Enzina Papa 

giovedì 13 luglio 2023

CARTAGINESI E BEDUINI

  Ho sentito più volte chiamare i Santangiolesi con l’appellativo di “Cartaginesi” e “Beduini”, adoperato in senso offensivo.
Vorrei precisare che in questi appellativi c’è un riferimento storico, legato al Criptoportico della Starza, che fu costruito, a quanto pare, durante la II guerra punica (o cartaginese perché i Cartaginesi erano detti anche Puni).
La guerra fu combattuta dai Cartaginesi contro i Romani e fu condotta da Annibale, che si era stanziato a Capua con le sue truppe e quindi molto verosimilmente è venuto a combattere anche a Sinuessa contro i Romani.
La Villa Rustica, circondata dal Criptoportico, fu adoperata, secondo gli studiosi, come magazzino, deposito di viveri, durante la guerra.
Cartagine corrisponde all’incirca all’odierna Tunisi, capitale della Tunisia, che si trova in Nord Africa, dove c’è il deserto.
Per questo motivo gli appellativi Cartaginesi e Beduini (popoli del deserto) si riferiscono sempre allo stesso popolo.
Se qualcuno usa questi appellativi in senso offensivo, vuol dire che non conosce la Storia e che, quindi, è un ignorante.







martedì 11 luglio 2023

I MAZZONARI

I terreni ubertosi e ben coltivati che facevano parte della Campania Felix al tempo dei Romani erano diventati paludosi e malsani nel Medio Evo perché con le invasioni barbariche tutto era caduto in abbandono.
Quelle terre una volta erano popolate da ville e vigneti e intersecate da numerose vie, tra cui spiccavano l’Appia e la Domitiana.
I Longobardi e poi i Normanni tentarono di prenderne possesso ma dovettero ridursi sulla costa e sulla cima del monte Petrino dove non arrivavano le esalazioni delle paludi sottostanti.
Quella vasta estensione di territorio nota come bacino inferiore del Volturno, che per la maggior parte apparteneva ai comuni di Mondragone , Castel Volturno e Villa Literno, era tutta sott’acqua.
Diversi erano i motivi dell’impaludamento: la scarsa manutenzione dei canali, che non venivano espurgati, gli straripamenti del Volturno, il cui deflusso era ostacolato dalle dune, che si opponevano allo scolo delle acque in mare.
Un altro motivo era da ricercare nelle grandi estensioni dei latifondi. Mentre i servi della gleba si limitavano a coltivare i terreni adiacenti al castello, le vaste distese dei campi lontani erano latifondi, boscose paludi, non toccate da piede d’uomo, dove trovavano ricovero perfino gli animali feroci. Appartenevano a duchi e baroni, che non ne conoscevano neppure i confini e che si ereditavano di generazione in generazione.
Quelle terre non potevano essere messe a coltura e non solo non producevano nulla ma con i miasmi riuscivano infeste agli abitanti, la cui vita era stentata e brevissima.
Tali rimasero le condizioni delle terre di Mondragone, famosa per la malaria, che si leggeva sul volto degli abitanti, nei quali si poteva osservare quella forma di cachessia ( deperimento organico e indebolimento fisico), riconoscibile anche agli occhi del profano. Un individuo su dieci aveva l’addome gonfio per tumore alla milza.
Depurare quell’aria da esalazioni micidiali e prosciugare e fertilizzare quei terreni e rendere possibile la divisione e quotizzazione tra i cittadini poveri era un’impresa altamente civile ed economica da gran tempo reclamata per migliorare le condizioni di vita della popolazione e per elevare alla dignità umana quegli esseri che di uomini avevano solo le fattezze.
L’uomo, destinato a vivere in quelle zone, acquistava un carattere speciale, contraddistinto dalle note patologiche della malaria: un minorato, un degenerato, un sofferente, su cui incombeva, come un fato, il vivere negli acquitrini; era il mazzonaro.
Il termine “mazzonaro”, che dà origine anche al nome della zona dei Mazzoni, deriva molto probabilmente dalle rudimentali mazze, bastoni, con cui i mazzonari guidavano la mandria.
Come si legge nel libro “Storia di Mondragone” del dott. Biagio Greco, ecco il ritratto che ne fa il Savarese:
(Giacomo Savarese fu uno dei principali esponenti politici durante il regno di Ferdinando II di Borbone, autore di importanti testi sull’economia e sulle finanze napoletane, consigliere del re)
“Il mazzonaro è un uomo di forme atletiche, ma sparuto in viso e panciuto molto per l’abituale gonfiezza del fegato, effetto della malaria cronica. Tutto il suo avere consiste negli ordigni di caccia e di pesca , nella giumenta e in una specie di barchetta, a cui dà il nome di sandalo. La sua industria consiste nel prendere a soccio bufali, cavalli e maiali; il suo armento pascola errando nelle paludi, senza ch’egli si curasse di sapere a chi appartenesse il suolo che calpesta. Nelle stagioni opportune una preda abbondante compensa le fatiche della caccia e della pesca. Tutto il resto dell’anno è tempo di riposo. Avvolto nel suo ampio mantello e costantemente vestito di lana, anche in piena estate, il mazzonaro rimane assiso sull’uscio della sua capanna , in una specie di ozio meditativo. Nessun uomo straniero alla contrada osa penetrare nei Mazzoni quando non sia conosciuto. Non vi sono strade, né case, né ponti”
( Ecco come gli alunni della scuola elementare hanno rappresentato il mazzonaro e la sua capanna)



mercoledì 5 luglio 2023

MONDRAGONE TRA CASERTA E NAPOLI

Mondragone si trova a 47 km a nord di Napoli e all’incirca alla stessa distanza ad ovest di Caserta.
Ha fatto parte del Regno di Napoli da quando è nato nel 1282 e ne ha condiviso, nel tempo, accadimenti e vicissitudini.
Carlo I d’Angiò, venuto in Italia su invito del Papa, conquistò il Regno di Sicilia ( tutta l’Italia meridionale), dopo aver sconfitto Manfredi di Svevia nel 1266 e trasferì la capitale del Regno da Palermo a Napoli.
Diventato re, volle premiare i suoi collaboratori e punire i nemici. Per quello che ci riguarda, concesse la Rocca di Mondragone al genero, Filippo, re di Tessaglia , che aveva sposato sua figlia Beatrice.
Nel Regno di Napoli esisteva un Dipartimento, denominato Terra di Lavoro, già dai Romani chiamato Campania Felix per la fertilità del suolo e l’abbondanza dei prodotti agricoli.
Era un’area vastissima che comprendeva tutto il territorio tra Napoli e Roma, ripartito tra tre regioni: Campania, Lazio e Molise. Verso Nord, arrivava fino a Latina e Frosinone nel Basso Lazio, comprendeva la Campania con Caserta, Benevento, Avellino e una parte di Napoli ed arrivava fino ad Isernia, nel Molise.
Fu Napoleone, poi, a riformare la ripartizione territoriale del Regno di Napoli sulla base del modello francese, sopprimendo il sistema feudale.
Istituì la provincia di Napoli e ridimensionò Terra di Lavoro. Alcuni territori , tolti a quest’ultima, furono annessi alla provincia di Napoli per dare alla capitale del Regno un territorio più ampio di riferimento. In quel periodo il titolo di capoluogo di Terra di Lavoro fu assegnato a Capua.
Dopo la caduta di Napoleone i Borboni tornarono sul trono di Napoli e la situazione tornò come prima e
nel 1818 fu Caserta a diventare capoluogo di provincia fino al 1861.
Dopo l’Unità d’Italia ci fu un nuovo ridimensionamento di Terra di Lavoro e l’istituzione di nuove province.
Nel periodo fascista, poi, nel 1927 Mussolini decise di sopprimere la provincia di Caserta e di dividere il territorio di Terra di Lavoro tra le province di Roma, Frosinone, Campobasso, Benevento e Napoli per motivi di ordine pubblico, politico ed economico.
Lo affermava nel discorso dell’Ascensione del 27 maggio, in cui diceva: - I Mazzoni sono una piaga che sta tra la provincia di Roma e Napoli, terreno paludoso, stepposo e malarico, abitato da una popolazione che fin dal tempo dei Romani aveva una pessima reputazione ed era chiamata popolazione di “latrones” …Liberatemi da questa delinquenza col ferro e col fuoco.
Ed elencava i numerosi misfatti: oltraggi alla forza pubblica, incendi, omicidi, lesioni, furti, rapine e danneggiamenti…
E concludeva: -Sono stati arrestati 1699 affiliati alla malavita… I podestà e i combattenti sono esultanti , la parte sana della popolazione ringrazia le autorità per l’opera necessaria di igiene.
La soppressione e lo smembramento, secondo lui, erano necessari perché riducendo l’estensione del territorio, le forze dell’ordine avrebbero potuto operare in maniera più agevole.
Un altro motivo dello smembramento era di carattere politico ed era quello di ampliare la città di Napoli, che per il Fascismo doveva diventare “ la regina del mediterraneo”.
Essendo stata soppressa la provincia di Caserta, Mondragone diventò provincia di Napoli. Ci sono ancora persone che conservano lettere del periodo fascista, in cui Mondragone era provincia di Napoli.
Nel 1945 con Decreto legislativo firmato da Umberto di Savoia fu ricostituita la provincia di Caserta secondo l’attuale configurazione.
( Nelle foto: il Castello di Mondragone,
la statua di Carlo I d'Angiò , che si trova davanti al Palazzo Reale di Napoli e Palazzo Reale)