sabato 28 giugno 2025

L’ANTICA TRADIZIONE DELLA MIETITURA






UN TUFFO NEL PASSATO: L’ANTICA TRADIZIONE DELLA MIETITURA
La mietitura era una sorta di resoconto finale dell’annata, durava all’incirca un mesetto, dalla seconda metà di giugno alla prima metà di luglio, periodo variabile a seconda della maturazione del grano, dell’esposizione al sole del terreno e delle condizioni metereologiche e si mobilitava per essa tutto il mondo contadino: intere famiglie partivano armate di arnesi per mietere, fatti affilare dall’arrotino, mussuri e faucioni.
Nelle prime ore del mattino, quando era ancora buio, le strade di campagna si popolavano di traini con a bordo uomini, donne e bambini, guidati dalla luce fioca della lanterna a petrolio.
Arrivati in campagna, tutti per proteggersi dal sole si vestivano adeguatamente con scarponi e calze grosse, fazzoletti in testa. Appena arrivati, i contadini si distribuivano sui lati del campo e ciascuno prendeva la sua direzione, passando intere giornate a mietere il grano sotto il sole cocente, a falciare le spighe a schiena ricurva.
Man mano che si mietevano le spighe, si formavano le regne, cioè i fasci che venivano legati. Una volta mietuto un bel pezzo di campo si raccoglievano le regne per poi formare i covoni in attesa della trebbiatura. Quando si mieteva si sentiva spesso dire: - Mieti sotto, miè! Che significava mietere a fior di terra per ottenere molta paglia che serviva come foraggio per il bestiame durante l’inverno.
Il mietitore più in gamba veniva chiamato “ ru spaccarano” e occupava il centro del campo e aveva alla sua destra tutti gli altri mietitori. (tratto da “Mondragone: scorci di vita passata” di Antonio D’Amato)
Era usanza che il proprietario del fondo mettesse nel campo, il giorno delle Palme, un ramoscello d’ulivo benedetto: con esso il contadino chiedeva al Signore protezione nella difesa del campo dai parassiti, dalle intemperie e dai malefici ma anche di ottenere un raccolto abbondante. Il mietitore che lo trovava aveva diritto a un premio.
La comitiva dei mietitori si fermava per il pranzo consumato all’ombra di alberi frondosi, esso consisteva in pane, pomodori, formaggio, cipolle e vino rosso ma il proprietario del campo non mancava di portare un bel prosciutto da condividere con tutti i mietitori.
Al momento del pranzo poi c’era sempre qualcuno che sapeva suonare la fisarmonica e si intonavano canti popolari e si improvvisavano balli.
Si cantava anche mentre si mieteva perché il canto aiutava a vincere la stanchezza e a dare vigore al corpo. Dopo aver completato la mietitura le persone più povere che non avevano terreni chiedevano il permesso di andare nei campi a spigolare cioè a raccogliere le spighe rimaste e il permesso veniva sempre accordato poiché si viveva in un’era di maggiore solidarietà.
Per completare poi la mietitura i contadini erano soliti bruciare le stoppie dopo Ferragosto ed essendo un’operazione pericolosa appiccavano il fuoco e lo sorvegliavano con molta attenzione. Veniva fatto di sera da più persone per poter affrontare insieme eventuali imprevisti favoriti dal vento.
Dopo alcuni giorni il grano veniva trasportato sulle arie , grandi spazi aperti, in posizione ventilata, per la trebbiatura. Nel paese, ce n’erano diverse, dislocate nei rioni, dove ognuno poteva portare il proprio grano per trebbiare. Si trasportavano le regne con i traini, si caricavano e si scaricavano con le furcate. Venivano stesi per terra grandi teloni su cui venivano adagiate le regne, slacciate. Il modo più antico e semplice di trebbiare il grano fino all’ ‘800 era quello che si eseguiva con il correggiato.
L’operazione consisteva nella battitura del grano per mezzo di un attrezzo, l’auiglio, composto da due bastoni di lunghezze diverse, uniti insieme da una cinghia di cuoio. La parte lunga costituiva il manico, quello corto serviva per percuotere il grano.
I contadini in circolo si accordavano su chi doveva battere il primo colpo, al quale seguiva in senso rotatorio il vicino e così via. Dopo le prime battute lente e incerte , il ritmo cresceva e i colpi diventavano un suono ritmico e armonico scandito dal volteggiare dei bastoni.
Di tanto in tanto il grano veniva rivoltato con la forca fino alla completa trebbiatura, cioè fino a che i chicchi non uscivano dalla spiga.
C’era anche la trebbiatura con il calpestio degli animali. Il grano veniva schiacciato dal mulo o dal cavallo, che veniva prima dissetato e sfamato, poi dotato di paraocchi per ridurre il suo campo visivo, veniva guidato dal contadino secondo una traiettoria circolare tramite una fune legata alla testa; il contadino faceva muovere l’animale in cerchio , il quale schiacciava le spighe liberando i chicchi dal loro involucro e un altro contadino rivoltava il grano con il forcone dopo il passaggio dell’animale.
Dopo aver trebbiato il grano con ciascuno di questi metodi era necessario separare i chicchi dalla paglia a e dalla pula e occorreva farlo in una giornata ventosa . Si stendeva un telo per terra, con una pala si raccoglieva il grano e si metteva nei setacci, che le donne impugnavano verso l’alto, all’altezza della spalla, facendo cadere controvento una piccola quantità alla volta. Il vento portava via la pula e i chicchi cadevano sul telo.
All’inizio del ‘900 comparvero le prime trebbiatrici , qui a Mondragone la macchina fu portata tra gli anni 20/30 e si andava a noleggiare a Sparanise, da dove veniva trasportata da due buoi. Ogni famiglia che aveva mietuto trasportava il grano dove era stata posizionata la trebbiatrice e aspettava il suo turno per trebbiare.
La procedura prevedeva l’impiego di più persone: c’era chi inseriva il grano nella macchina, chi lo incanalava nel carrello, chi lo tagliava per far procedere la macchina senza intoppi, chi si posizionava all’uscita dei bocchettoni con i sacchi per mettere il grano.
Era un lavoro senza sosta, che richiedeva forza e attenzione continua, tra un immenso pulviscolo sparso nell’aria. A fine giornata i volti dei contadini , anche se sporchi , sudati e segnati dalla fatica esprimevano la soddisfazione di aver messo a frutto l’intero lavoro di un’annata.
Intorno agli anni 50/60 c’è stato l’arrivo della mietitrebbiatrice meccanica, che ha eliminato la mietitura manuale, lunga e faticosa, passando così ad una prima meccanizzazione dell’agricoltura.
Quegli immensi campi, quelle intere giornate di duro lavoro venivano così ridimensionate.
Oggi il lavoro lo compie la macchina con un solo operatore, si tratta di una macchina che è in grado di mietere e dare direttamente come risultato finale il grano pulito e pronto.
La mietitura era un lavoro davvero faticoso ma che coinvolgeva tutti ed era anche un’occasione per i giovani di vedere le ragazze, a cui non era concesso di uscire con tanta facilità come oggi, era occasione di grande convivialità attraverso balli, canti e divertimento ma soprattutto essa dava grande soddisfazione ai lavoratori per essere riusciti a procurare alla famiglia il pane, l’alimento principale, simbolo della vita.
Alla mietitura sono legati alcuni detti popolari.
Il primo dice: “ A femmena prena pure sotto a regna trema!”e sta a significare che se una donna è incinta, può tremare anche quando fa molto caldo, nel periodo della mietitura, per condizioni legate non al tempo ma alla gravidanza.
Un altro detto dice: Oi patronu mio
si vuo mete lu rano
E caccià carne e maccaruni
o sinnò lu rano te lu mieti tu
In questo caso sono i braccianti che si rivolgono al padrone, dicendogli di preparare per loro un buon pranzo, se vuole la mietitura del grano. Sapevano bene che il padrone aveva bisogno delle loro braccia per la mietitura e gli intimavano, molto apertamente, di trattarli bene.
Un altro detto afferma: Sciò quarella, sciò! Per far volar via gli uccellini che andavano a beccare i chicchi di grano.
Un altro detto ancora:
Chi va appriess agl’aucieglij che vola
Nun ce port lu ran a la mola!
Sta a significare che chi , invece di mietere, si mette a guardare l’uccello che vola, non riuscirà a portare il grano al mulino.

domenica 22 giugno 2025

LA PROCESSIONE DEL CORPUS DOMINI TRA SACRO E PROFANO


A Mondragone la processione del Corpus Domini è una delle più sentite a livello popolare, in essa si manifesta pubblicamente la fede del popolo di Dio, che celebra la presenza reale del Corpo di Cristo nell’Eucarestia.
Tutto il paese si mobilita per un appuntamento così importante e il popolo mondragonese manifesta, a modo suo, la venerazione, l’amore e il rispetto in questa manifestazione, con ciò che ha di più bello, con i canti , la musica , le preghiere, con le campane che suonano a festa, con le bianche coperte di lino che sventolano ai balconi, con i cesti pieni di petali di fiori ed erbe profumate, che vengono versati in strada al passaggio dell’Ostia Santa, oggi sostituiti dalle infiorate, ancora più belle, preparate con amore e dedizione, anche di notte.
Ogni anno la Confraternita del Giglio, per tradizione, appende in cima allo stendardo le primizie della terra mondragonese: il grappolino d’uva, ancora acerba, le pere piccoline, le melelle di San Giovanni, i ficoni… , in segno di gratitudine e di riconoscenza per questa terra così ricca e feconda.
L’offerta simbolica di quei frutti vuole esprimere un profondo ringraziamento perché è proprio grazie ai frutti della terra, oltre all’aria e all’acqua, che è possibile la nostra vita.
Diversi anni fa, nel giorno del Corpus Domini, una giovane donna, incinta, stava ferma a un lato della strada per assistere al passaggio della processione.
Quando le sfilò davanti agli occhi la Confraternita del Giglio, osservò lo stendardo, che, in cima, aveva i bei frutti.
Quelli erano davvero i primi frutti dell'estate, quando si praticava un'agricoltura rispettosa dell'ambiente e della stagionalità, oggigiorno con l'agricoltura moderna, intensiva e globalizzata, a Natale si possono vedere le fragole e le ciliege...
La suocera, che le stava accanto, se ne accorse e le disse: - Hai visto i frutti ? Ne hai avuto voglia? - No – si scherniva la ragazza – ho solo guardato ma non ho avuto voglia! – ma la suocera, imperterrita, ribatté: - Non ti preoccupare! Ci penso io!
Appena finì la processione, seguì il priore, che, con gli altri membri della confraternita, si recava al Giglio e chiese se poteva avere i frutti per la nuora incinta e glieli portò immediatamente.
Fu un gesto affettuoso di una suocera per la nuora. Quei frutti, un elemento profano del territorio, offerti a Cristo, ora ritornavano ad una mamma in attesa per nutrire una nuova vita, dono sacro e inviolabile.
Quel gesto ci dà il senso di come la vita quotidiana si intrecci di continuo con la dimensione spirituale, con qualcosa che va oltre la quotidianità, in connessione costante con qualcosa di molto più grande.





venerdì 13 giugno 2025

IL FUOCO DI SANT’ANTONIO




IL FUOCO DI SANT’ANTONIO Fino a pochi decenni fa, a Mondragone, c’era la tradizione del fuoco di Sant’Antonio.
La sera del 12 giugno, vigilia della festa di Sant’ Antonio, i vari rioni si illuminavano nel ricordo di un antico rito.
Era un rito collettivo, i vicini di casa raccoglievano rami secchi, sedie rotte, mobili vecchi ecc ed accendevano grandi fuochi in onore del Santo.
Nel Rione San Francesco il fuoco si accendeva all’incrocio tra via Elena, Via Trento, Via Fiumara, Via Padule e Via Giardini.
Tutti si radunavano intorno al fuoco, affascinati da quell’ elemento di purificazione e trasformazione, di connessione con il sacro e il divino, un mondo che va oltre noi e di cui tutti facciamo parte, consapevolmente e inconsapevolmente.
Il rito, con il tempo, è andato scomparendo ma ancora qualcuno lo ripete, a S. Angelo, un rione sempre rispettoso delle tradizioni.
In realtà l’accensione del fuoco è un rito che si faceva e che si fa tutt’oggi in onore di S. Antonio abate, l’anacoreta del deserto, da cui S. Antonio di Padova volle prendere il nome.
Con il passare dei secoli , nell’immaginario collettivo le ritualità si sono confuse e sovrapposte , trasferendosi da un santo all’altro, come spiega l’antropologo Marino Niola.
A volte, tra i due Santi nasce un po’ di confusione specie quando i loro nomi non sono affiancati da necessarie precisazioni che li identificano.
Sant’ Antonio di Padova è un santo medioevale, vissuto nel XII sec. , legato alla predicazione e alla vita religiosa mentre Sant’ Antonio Abate è un eremita egiziano, vissuto nel III sec. , considerato patrono degli animali e legato alla vita monastica.
La leggenda narra che in un tempo antico la Terra era fredda, non esisteva il fuoco e gli uomini non trovavano calore.
Così Sant’Antonio scese nell’Inferno portando con sé un maialino, il quale incominciò a girare e a creare scompiglio, per cui i diavoli chiesero al Santo di riprenderselo.
Il Santo intanto aveva con sé un bastone di ferro, che poggiò sul fuoco infernale e ne assorbì il calore.
Una volta uscito dall’Inferno, il bastone sprigionava scintille di fuoco e così il mondo ebbe il dono del fuoco e la possibilità di scaldarsi.
La foto ritrae l'accensione del fuoco davanti alla chiesa di S. FRANCESCO


giovedì 12 giugno 2025

Troppa grazia Sant’Antonio!



TROPPA GRAZIA, SANT’ANTONIO!!! Tante volte abbiamo sentito o usato questo detto, che si usa ironicamente per esprimere che si è ottenuto più di quanto richiesto, con conseguenze non del tutto positive.
Si tratta di un’espressione, che offre più di una spiegazione.
Dal Messaggero di Sant’Antonio si legge che quando il Santo fu canonizzato, venne letto un elenco infinito di fatti divini o miracoli per cui la folla incominciò a dire scherzosamente: - Troppa grazia, Sant’Antonio!
A Firenze il detto sarebbe legato al vescovo Antonio Pierozzi che, vissuto nella metà del XV sec. , veniva chiamato Antonino perché di struttura esile. Molti Fiorentini si recavano da lui per consigli e conforto e per questo fu soprannominato “Antonino dei consigli”. Un giorno una coppia si recò da lui per chiedere una preghiera di intercessione per avere figli. Poco dopo la coppia ebbe un figlio, poi un secondo, un terzo, un quarto, un quinto. Al sesto figlio i coniugi esclamarono: - Troppa grazia, Sant’Antonio!
L’espressione viene collegata anche ad un mercante, che, essendosi arricchito dopo una vita di stenti , riuscì a comprare un cavallo .Quando si trattò di montare in groppa, non riusciva a prendere lo slancio necessario perché aveva le gambe troppo corte. Dopo alcuni tentativi, si rivolse a Sant’Antonio e invocò la grazia. Poi, mettendo un eccessivo impeto nello sforzo, scavalcò l’animale e cadde dall’altra parte a gambe all’aria ed esclamò: - Troppa grazia Sant’Antonio!

Comunque sia, non si può negare che Sant’Antonio di grazie ne ha fatte davvero tante.



venerdì 6 giugno 2025

LA SPOSINA

Maggio e Giugno, a Mondragone, sono i mesi della raccolta dei fagiolini. A tale proposito vi propongo un racconto, che mi è stato trasmesso dalla mia cara amica VINCENZINA MARTA, con me nella foto, scomparsa, purtroppo, già da qualche anno. LA SPOSINA Una volta il raccolto o meglio la raccolta (perché da noi il termine è di genere femminile) era il momento più atteso dal contadino mondragonese, la principale entrata economica con cui egli faceva fronte alle spese e al sostentamento della famiglia . Se il raccolto andava male si potevano perdere case, terre e andare in rovina ed è successo, purtroppo, a tanti. Negli anni ‘50 una ragazza del rione san Francesco, figlia di un muratore, andò in sposa ad un giovane contadino della zona mare . Quando erano fidanzati i due andavano spesso ad aiutare degli zii anziani e soli, a cui erano morti i figli. Un giorno la ragazza, entrando nella stalla, vide a terra una cucciola di asina , che era nata nella notte, provò ad accarezzarla e l’asinella, tutta contenta, le spingeva la mano come un cane, per farsi accarezzare di nuovo; ne nacque una bella amicizia e ogni giorno la ragazza l’andava a trovare, le dava da mangiare e la coccolava. La zia osservava tutto in silenzio e decise di allevare l’asina e di donargliela in occasione delle nozze. Appena i due giovani si sposarono, due donne, parenti dello sposo, dalle lingue maligne e biforcute, vedendo che la ragazza era alta e magra, incominciarono a malignare su di lei , dicendo che non sarebbe stata in grado di aiutare il marito in campagna poiché un tempo si credeva che per essere persone di buona salute, bisognava essere in carne e per di più poi era figlia di muratore, non di contadini e appena vedevano il marito commentavano: - Oh, poveru compa Ciccio, poveru compa Ciccio! La ragazza, invece, che era buona e giudiziosa con grande volontà di imparare, seguiva sempre il marito e lo aiutava in tutto. Il giovane, all’epoca, lavorava due moggi di vigna alle Due colonne sulla Domitiana, un moggio coltivato a fagiolini e uno a borlotti. Quando arrivò il momento della raccolta, siccome in quella zona arrivavano a maturazione i primi fagiolini e venivano pagati ad un prezzo più alto, i due sposini guadagnarono tanti soldi da comprare il carretto e i vuarnimienti ( gli accessori) per l’asina, quattro botti per l’uva, il maiale, ad agosto, e fecero il compromesso per l’acquisto di un terreno su cui costruire la loro nuova casa. Allora le due parenti incominciarono a chiedersi come avevano fatto e si davano tanto da fare che le critiche arrivarono anche agli sposi. Alle famiglie delle due donne quell’anno la raccolta andò male e non potevano pagare l’affitto delle terre, dovettero andare dagli sposini a chiedere il prestito di cinquemila lire per ognuna ed essi nonostante le critiche di cui erano a conoscenza , glielo fecero volentieri. Dopo due anni la sposina ebbe un bambino e per un po’non andò in campagna ma poi vi ritornò, affidandolo alle cure della nonna; quando diventò più grandicello, lo portava all’asilo sul seggiolino della bicicletta, poi si immetteva sulla Domitiana e raggiungeva il marito in campagna. Un anno il marito si recò in campagna per vedere se erano nati i fagiolini e trovò che la ilata, cioè la gelata, aveva bruciato i piccoli fagiolini appena spuntati, disse alla moglie che quell’anno purtroppo non avrebbero ricavato niente dalla raccolta ma siccome quando si seminano i fagioli, se ne mettono 4 o 5 nella buca del terreno, c’è il seme che nasce prima e quello che nasce dopo e così , passata la gelata, spuntarono gli altri fagiolini, che, zappati, concimati e curati amorevolmente, diedero vita anche quell’anno ad un raccolto abbondante e fruttuoso. Un altro anno, il 5 giugno, morì il papà della sposa proprio quando i fagiolini erano pronti da raccogliere , il marito andò in campagna a controllare e trovò che i ladri avevano rubato i fagioli, scavandoli con tutte le radici; allora, poiché c’era un altro pezzo di terreno dove i fagioli stavano per arrivare a maturazione, si recò da un cugino, chiedendo se, dal momento che essi erano impegnati nel triste evento, glieli poteva andare a raccogliere e il cugino ci andò, poi li andò a vendere e gli portò i soldi fino a casa. Questo avveniva nella società contadina quando c’era più povertà ma più solidarietà tra le persone. Ogni anno la raccolta fruttava loro soldi con cui poter vivere decorosamente e la famiglia progrediva economicamente ed onestamente con il proprio lavoro. Così è stato per la maggior parte dei Mondragonesi, che con i proventi della raccolta hanno costruito la loro posizione economica, partendo anche da zero: hanno comprato, costruito, sposato figli e rimpinguato il conto in banca. Una volta l’agricoltura era l’attività predominante dei Modragonesi ma con il tempo molti dei terreni adibiti all’agricoltura sono stati utilizzati per la costruzione di case, di lidi balneari ecc. e con l’incremento del settore secondario e terziario, molti Mondragonesi sono passati ad altre attività lavorative. Negli ultimi decenni , poi, l’agricoltura ha visto una continua evoluzione delle forme organizzative della produzione, difatti oggi sono le aziende che operano nel settore agricolo: grandi , medie e piccole, a conduzione familiare. La tecnologia ha portato alla meccanizzazione e al ricorso massiccio alla chimica per l’aumento della produttività e della competitività oltre allo sfruttamento dei braccianti, soprattutto extracomunitari. Chi subisce le conseguenze di ciò è il piccolo contadino, proprietario terriero o affittuario, che non può competere con i prezzi competitivi delle aziende e non riesce a vendere a prezzo equo i prodotti del proprio campo e a derivare un reddito adeguato alla propria attività e spesso è costretto a vendere il proprio terreno e a cercare un lavoro più redditizio, a volte costretto anche all’emigrazione.