martedì 25 gennaio 2022

PARIARE O NON PARIARE

PARIARE O NON PARIARE? Spesso sentiamo usare il termine PARIARE dai ragazzi mondragonesi ma anche campani, in generale, con il significato di divertirsi, perder tempo.
Una volta, invece, a Mondragone, si usava questo termine quando si raccoglievano le lumache, dopo la pioggia, e prima di cucinarle, si mettevano in una pentola chiusa, non ermeticamente, con una retina sopra, a PARIARE, cioè a digerire o spurgare, per far svuotare loro l’intestino.
Oggigiorno da noi le lumache non si mangiano più, però si allevano in alcune parti d’Italia, soprattutto in Piemonte, dove, in alcuni ristoranti, gli chef le propongono nei loro menu come prodotto di nicchia agli intenditori e appassionati, come in Francia le escargot deliziano i buongustai francesi.
Il verbo PARIARE deriva dal verbo latino pario- as- avi- atum-are, che significa pareggiare, rendere uguale.
Le lumache pariavano, stando a digiuno, digerendo ciò che avevano mangiato, pareggiando, per così dire, il tempo del cibo con quello del digiuno.
Per estensione, nel tempo, si è passati a usare il verbo PARIARE nel senso di riequilibrare il tempo dell’impegno lavorativo con quello del riposo. In effetti, è necessario, quando si accumula troppo stress a causa degli impegni continui e delle preoccupazioni, per il nostro benessere psicofisico, prendersi un tempo di riposo, staccare la spina, come si suol dire anche perché l’inattività non è mai improduttiva, ma serve a darci nuova carica ed energia.
Allora PARIARE o non PARIARE? PARIARE, certamente, perché fa bene, sia nel senso del divertimento come in quello del riposo. Se c’è un tempo per tutto, ci sarà anche quello del PARIARE, ovviamente senza esagerare perché sono sempre gli eccessi quelli che fanno male.
Come si può vedere, attraverso questa parola, ma in tante altre, la lingua fa giri e rigiri nel tempo, le parole possono addirittura cambiare significato o essere usate in contesti diversi ma alla fine i conti tornano sempre.

domenica 16 gennaio 2022

Parliamo di piante : “ri f(e)tient”

 



Queste piante, comunemente chiamate “ri f(e)tient”, a causa del loro odore sgradevole, sono piante che crescono lungo le siepi, sembrano sempre uguali, d’estate e d’inverno, con foglie ovali, appuntite in cima, con fiori giallo verdognoli.
Quando si faceva il pane e si doveva pulire il forno dalla brace e dalle impurità, prima di infornare, si usava pulire il fondo del forno con una sorta di scopa rudimentale “ru scupazz”, formato da una lunga pertica alla cui punta veniva legato un mazzo di fetient.
Venivano utilizzate le foglie di questa pianta perché, essendo molto ricca di acqua, non bruciava a contatto con il fuoco.
Le piante che vedete in foto si trovano nella traversa di via Padule, che portava ai bagni sulfurei e che arrivava, una volta fino all’Appia antica, la strada sotto la montagna.
Grazie a Emilio Cuoco, Rita Corvino e Mariarosaria Saulle abbiamo potuto dare un nome a "Ri fetient": CESTRUM PARQUI... I nomi italiani sono: cestro, erba cappona, gelsomino del Cile.
E niente...sono soddisfazioni per così dire "mondragonesi"...
Grazie a tutti per la collaborazione.

lunedì 10 gennaio 2022

LA ROCCA DI MONDRAGONE QUERELLE LETTERARIA DEL XVI SECOLO

LA ROCCA DI MONDRAGONE FU IL LUOGO DI INIZIO DI UNA CELEBRE QUERELLE LETTERARIA NAZIONALE DEL XVI SECOLO
L’argomento, finora a noi Mondragonesi del tutto sconosciuto, è stato analizzato e trattato dal prof. Pasquale Sorrentino in un saggio pubblicato nel 2013 sulla rivista trimestrale di cultura “Civiltà Aurunca”.
Da una conversazione avvenuta tra LUIGI CARAFA, duca di Mondragone dal 1578 al 1630, e il suo precettore GIOVANNI BATTISTA ATTENDOLO, noto poeta capuano, sulla poesia epica e su chi fosse, tra l’ Ariosto e il Tasso, il più grande poeta epico del ‘500, nacque un’opera dialogica “ IL CARAFFA OVVERO DELL’EPICA POESIA” , scritta dal frate poeta capuano CAMILLO PELLEGRINO, amico di Torquato Tasso. Il testo fu stampato a Firenze dalla tipografia Sermartelli nel 1584.
L’opera di C. Pellegrino fu come la miccia di un ordigno, che fece nascere una querelle (controversia) che vedeva contrapposti diversi letterati su chi fosse stato tra Ariosto e Tasso il maggiore poeta epico del ‘500.
Sarà bene ricordare che Ludovico Ariosto aveva scritto l’ “Orlando Furioso” pubblicato nel 1532 . L’opera tratta della guerra tra Carlo Magno e i Mori, guidati da Agramante. In breve, il tema fondamentale è quello della pazzia di Orlando, il più forte paladino di Carlo Magno, che si innamora di Angelica, figlia del re del Catai e che impazzisce quando viene a sapere che lei ha sposato Medoro , un giovane moro. Il paladino Astolfo si reca su di un cavallo alato, l’Ippogrifo, sulla Luna, dove, fra tante ampolle che contengono il senno perduto degli uomini, ritrova quella che contiene il senno di Orlando. Ritornato sulla Terra, l’avvicina al naso dell’eroe, che l’annusa e rinsavisce. Così Orlando contribuisce in modo decisivo alla sconfitta dei Mori.
Torquato tasso aveva scritto la “Gerusalemme Liberata”, che si ispirava ad un fatto storico: la prima Crociata, che si concluse nel 1099 con la liberazione di Gerusalemme e la conquista del Santo Sepolcro. Nel poema, però, non solo, si parla della guerra ma anche delle passioni, delle divisioni, dei tradimenti avvenuti tra i guerrieri. La storia di Rinaldo, il più coraggioso cavaliere cristiano, costituisce il nucleo centrale del poema. Rinaldo, catturato dalla bellezza e dalle arti magiche di Armida, principessa saracena , si allontana dal dovere per seguire i richiami della donna, poi si pentirà e riuscirà a riscattarsi e a capovolgere le sorti della guerra a favore dei Cristiani. Armida, che utilizza i suoi poteri magici per sedurre i cavalieri cristiani, innamoratasi di Rinaldo, alla fine, per amore accetterà di diventare cristiana e di sposarlo. Il Tasso nell’opera vuole rappresentare il destino dell’uomo, diviso tra il dovere e i richiami del cuore.
All’epoca del Dialogo di Pellegrino il successo della Gerusalemme liberata e la fama sempre crescente dell’autore ne avevano fatto un caso letterario. Il paragone con l’Orlando Furioso, di qualche decennio precedente, era inevitabile. Gli ammiratori dei due poeti si erano divisi più o meno equamente. Fu l’opera del Pellegrino, che innalzava il Tasso infinitamente non solo al di sopra dell’Ariosto ma anche al di sopra di tutti gli altri poeti italiani a scatenare la polemica, che durò diversi anni.
Le sue affermazioni non rimasero senza risposta, infatti “i numerosi partigiani di Ariosto gridarono altamente e gli Accademici della Crusca gridarono più forte di tutti e risposero al Dialogo di Pellegrino”.
( L’Accademia della Crusca, nata proprio nel ‘500, esiste tutt’oggi e raccoglie studiosi, esperti e filologi della lingua italiana. Rappresenta una delle più prestigiose istituzioni linguistiche d’italia e del mondo).
Alcuni letterati dell’Accademia difendevano l’Orlando furioso e l’Ariosto e sminuivano la Gerusalemme Liberata e il Tasso. Al Pellegrino rispose l’accademico LEONARDO SALVIATI con la “Difesa dell’Orlando Furioso dell’Ariosto contra ‘l dialogo dell’epica poesia di Camillo Pellegrino” Egli sanciva la superiorità dell’Ariosto rispetto al Tasso per la fedeltà ai canoni linguistici di Pietro Bembo (Bembo sosteneva che per la scrittura delle opere letterarie , gli Italiani dovevano prendere come modello Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa).
Anche un altro accademico della Crusca , BASTIANO ROSSI, fu dello stesso avviso , poiché sosteneva un utilizzo della lingua, da parte del Tasso, non conforme al soggetto epico, la sua lingua era troppo vicina al linguaggio parlato, dialettale e plebeo, lontano dalla tradizione fiorentina.
La querelle si traferì poi su altri livelli, da un piano linguistico si passò a quello ideologico e il Pellegrino fu accusato di avere una “pregiudiziale avversione” verso la tradizione toscana e perfino verso la Signoria dei Medici.
Addirittura l’anno dopo il Dialogo di Pellegrino , TASSO stesso scrisse l’ “Apologia del S. Torquato Tasso. In difesa della Gerusalemme liberata” , nella quale difendeva, sotto forma di dialogo, tutte le scelte fatte.
La polemica continuò, il SALVIATI replicò con la “Risposta all’Apologia di Torquato Tasso”, cui seguirono un nuovo opuscolo di PELLEGRINO e un ”Discorso” del TASSO, e un altro scritto di SALVIATI. Poi le acque si placarono e il Tasso stesso abbandonò la controversia.
Comunque la disputa tre ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo con la partecipazione anche di letterati minori. Molti si schieravano a favore della Gerusalemme ma molti furono anche i suoi denigratori, tra cui Galileo Galilei, che si scagliò contro la povertà di inventiva del Tasso.
Il Dialogo di Pellegrino fa riflettere anche sulla partecipazione dei letterati meridionali al dibattito culturale nazionale. Molti erano i letterati meridionali che andavano a stampare le loro opere nelle tipografie fiorentine nonostante ce ne fossero molte anche a Napoli. L’intento probabilmente era quello di una maggiore visibilità e partecipazione al dialogo culturale nazionale.
Non è da escludere l’ipotesi secondo cui lo stesso Tasso abbia conosciuto il nostro feudatario Luigi Carafa. Si ricorda che Tasso era nato a Sorrento e aveva studiato a Napoli, e pure essendosi trasferito in altre città d’italia, alla corte dei vari Signori dell’epoca, ritornò diverse volte a Napoli, dove frequentava i salotti della nobiltà napoletana, luoghi di incontro dei letterati e chissà che non abbia visitato anche la Rocca di Mondragone, luogo di inizio della querelle.
In conclusione, ciò che mi colpisce di questa querelle così rilevante e significativa a livello nazionale è che proprio a Mondragone era completamente sconosciuta.
Dobbiamo ringraziare il prof. Sorrentino, giovane e appassionato ricercatore, che all’attività di docente alterna anche quella di pittore e scultore. 







sabato 8 gennaio 2022

IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO

 
Tutti conosciamo questo famoso proverbio, con il quale si intende dire che è difficile cambiare la propria natura ed eliminare le cattive abitudini.
Sentite un po’ come ci scherzavano su i Mondragonesi in questo breve racconto.
Un lupo si andò a confessare. ( Non ci si meravigli del fatto perché nella fantasia popolare tutto è possibile, anche che un lupo si vada a confessare).
Mentre confessava i suoi misfatti, fiutò nell’aria l’odore delle pecore e intanto che il sacerdote lo esortava, dicendo: - Non farlo più!, lui, che fremeva tutto, impaziente di scappar via, disse: - Parrucchià, facit ambress , sta a passà na mmorr de pucurell proprj annanz a chiesja!
Grazie a Clara Ricciardone



giovedì 6 gennaio 2022

EPIFANIA E BEFANA : TRA STORIA E LEGGENDA

Un detto mondragonese recita: 
- Le feste jessene e venessene/
 Pasqua Epifania nun venesse mai! 
Femmene meje filate che le feste so passate
 
Ed ancora 
Pasca Epifania tutte le feste se porta via/
risponne a Cannelora: - Ce stongo io ancora! 

La prima festa del nuovo anno è quella dell’ Epifania, che coincide con quella della Befana, tanto aspettata dai bambini; avviene in questa ricorrenza la fusione tra l’elemento del culto religioso e quello della tradizione popolare. Il termine Epifania deriva dal greco e significa “apparizione, manifestazione”, riferita alla persona di Gesù ed è la festa che rievoca la visita dei Re Magi al Bambino Gesù, nella notte del dodicesimo giorno dopo Natale, tra il 5 e il 6 gennaio. Il senso profondo di questa solennità consiste nel fatto che in essa Gesù manifesta il mistero di salvezza di Dio a tutte le genti, non solo a Israele. I Magi, personaggi misteriosi venuti da lontano, simboleggiano i rappresentanti di tutti i popoli della Terra , che vengono a Gesù. Essi si prostrano davanti al Bambino e ne riconoscono la divinità, in più offrono al Figlio di Dio doni simbolici: oro, incenso e mirra; l’oro simbolo della regalità, l’incenso della funzione sacerdotale del Messia, mentre la mirra profetizza in maniera chiara la sua passione e morte. Il simbolo di questa festa è senza dubbio la stella cometa, la cui luminosità guidò i Re Magi verso il Signore ma il personaggio protagonista è quello della Befana, questo curioso personaggio, saldamente ancorato nell’immaginario popolare, da sempre molto amato, che con la tradizione cristiana non c’entra proprio niente eppure nella tradizione popolare c’è una leggenda che in qualche modo la inserisce come protagonista di questa festa religiosa. Essa racconta che quando i Re Magi stavano andando a Betlemme per rendere omaggio al Bambino Gesù, arrivarono in prossimità di una casetta e decisero di fermarsi per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere per Betlemme. Bussarono alla porta e venne ad aprire una vecchina, che diede loro le indicazioni ma quando i Re Magi le chiesero di unirsi a loro, lei rifiutò perché aveva molte faccende da sbrigare. Dopo che i Re Magi se ne furono andati, la vecchina capì di aver commesso un errore a rifiutare il loro invito e decise di raggiungerli. Uscì a cercarli ma non riuscì mai a trovarli. Così bussò ad ogni porta lasciando un dono ad ogni bambino nella speranza che uno di loro fosse Gesù. Da allora in poi ha continuato per millenni e continua ancora, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio a portare regali a tutti i bambini per farsi perdonare. Essa appare ancora oggi nella cultura italiana come una vecchia brutta e gobba che vola a cavallo di una scopa e che va in giro a distribuire dolci e regali ai bambini buoni e carbone ai “cattivi” , che sta a simboleggiare le marachelle compiute da questi ultimi nell’anno precedente. La figura della Befana rappresenta un esempio lampante di come quando la religiosità popolare si appropria di un festività religiosa, il profano talvolta può superare il sacro e far nascere personaggi simpatici, nella fattispecie questa vecchina che ha quasi finito per eclissare l’immagine dei Re Magi. Come molte altre tradizioni, anche quella della Befana affonda le radici nel nostro passato agricolo. Infatti l’origine della festa probabilmente è connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, legati ai cicli stagionali dell’agricoltura. Anticamente, infatti, si credeva che nelle 12 notti che seguivano il solstizio d’inverno, corrispondente al Natale, fantastiche figure femminili volassero sui campi seminati per propiziare il raccolto. Gli antichi Romani pensavano che a guidarle fosse Diana, dea della caccia. La Chiesa condannò con rigore tali credenze, definendole frutto di influenze sataniche, ma il popolo non smise di credere che tali vagabondaggi avvenissero. Tali credenze stratificandosi e sovrapponendosi diedero origine a diverse personificazioni che nel Medio Evo sfociarono nella nostra Befana. Nella dodicesima notte dopo il Natale, si celebrava, comunque, la morte e la rinascita della natura, attraverso la figura pagana di Madre Natura. La notte del 6 gennaio, infatti, Madre Natura, stanca per aver donato tutte le energie durante l’anno, appariva sotto forma di una vecchia e benevola strega che volava per i cieli con una scopa. Ormai secca, era pronta per essere bruciata per far sì che dalle ceneri rinascesse come giovinetta Natura. In molte regioni italiane, infatti, si costruiscono ancora oggi fantocci di paglia a forma di vecchia , che vengono bruciati nella notte tra il 5 e il 6 gennaio. La Befana, quindi coincide con la rappresentazione femminile dell’anno vecchio.



mercoledì 5 gennaio 2022

C’ERA UNA VOLTA LA BEFANA La Befana piccina piccina Va vestita da contadina Le scarpette di trullallà La Befana è mammà e papà…

La Befana piccina piccina 
Va vestita da contadina 
Le scarpette di trullallà 
La Befana è mammà e papà……

Così recitava una poesiola di tanto tempo fa, in cui c’è un chiaro messaggio che comunica ai bambini la vera identità della Befana. Nell’antica società contadina anche a Mondragone i bambini aspettavano la Befana, vista come una sorta di nonna buona che premia o punisce. Qui da noi, inizialmente, era piuttosto povera, a dire la verità; i suoi doni consistevano in poche caramelle, qualche dolcetto, noci, mandarini insieme a dosi più o meno consistenti di carbone. A pensarci bene quanti bambini ha fatto sospirare la cara Befana, e quanti ne ha delusi, quanta confusione ha creato nella loro mente; pochi erano i soddisfatti, che trovavano proprio i doni che desideravano. E quale sarà stata l’amarezza provata dai piccoli nel sentire, ad un certo punto, che la Befana non esisteva? Al giorno d’oggi c’è da chiedersi: - Ma è ancora valido il personaggio della Befana? Qual è il suo valore pedagogico ed educativo nella crescita del bambino? E’ un compito davvero importante per i genitori quello di delimitare il mondo del fantastico e del reale e comunque, alla fine, è sempre meglio dire ai figli la verità. Tra gli episodi raccontati dalle persone anziane in merito alla Befana, ce n’è uno accaduto negli anni ’30. Nel rione San Francesco viveva una famiglia di contadini con 5 figlie femmine, la seconda delle quali, pur essendo grandicella credeva ancora alla Befana; le era molto affezionata, a dire il vero, e non voleva proprio accettare la verità, quando qualche volta si provava a fargliela capire. La sorella maggiore a vederla così grande e grossa e così testarda non ci poteva proprio passare e decise di farle uno scherzo. Il papà portava dalla campagna tante zucche, piccole e grandi, tonde e lunghe. Lei ne tagliò una fetta , dandole una forma rettangolare come quella di un torrone, modellandola alla perfezione, la incartò per bene e aspettò la sera del 5 gennaio. Come ogni anno la ragazzina credulona appese la sua calza insieme alle sorelle più piccole e andò a dormire, cercando comunque di restare sveglia per sentire qualche scricchiolio, per avvertire la presenza della Befana con un po’ di paura ma con tanta curiosità. La sorella maggiore, quando si rese conto che tutti dormivano, si alzò e con grande precauzione, infilò il finto torrone nella calza della sorella. La mattina seguente fu proprio quest’ultima la prima a svegliarsi e al buio corse, a piedi scalzi, a tastare le calze appese e, sentendole piene, gridò alle sorelle:- E’ venut, è venut a Befana!E tastando la sua calza, disse: - A me m’ha purtato nu turruncin luongu luong! E senza pensarci su due volte, lo addentò con avidità ma dopo pochi secondi esclamò: - Ma chest è cucozza! Chi è stat? La sorella maggiore se la rideva sotto i baffi, senza fiatare: in un attimo aveva infranto il sogno di quella ragazzina a cui piaceva tanto l’idea di quella vecchia brutta ma tanto cara che ogni anno pensava a lei e veniva di notte a portarle i regali in una maniera così buffa e rocambolesca, scendendo dal camino. Negli anni ’50 la Befana era diventata un po’ più ricca, a Mondragone: c’erano già i negozi che mettevano in bella mostra i giocattoli dell’epoca: fucili, pistole, bambole, trenini, cavallucci a dondolo. Fra i tanti bambini che aspettavano la Befana, c’era anche un bambino, figlio di una vedova, che faceva di tutto per i figli, ma le possibilità erano davvero poche. La madre, nei giorni precedenti alla festa, senza troppe spiegazioni gli diceva che doveva arrivare la Befana e lui, poverino le credeva perché si sa che per un bambino quello che dice la mamma non può che essere la verità. Allora si recava davanti alla vetrina del negozio di giocattoli di Pagliuca, a corso Umberto, dove ora si trova il negozio di Ottica “Russo” e dopo aver osservato bene i giocattoli, sceglieva quello che secondo lui era il più bello, un bel fucile grande o una pistola nera e lucida e credendo di doverlo comunicare alla Befana con la forza del pensiero, oggi diremmo con la telepatia, guardando il giocattolo, glielo comunicava. Ma che delusione aveva la mattina dopo, povero caro, quando andando ad aprire la calza, non trovava che poche caramelle, un pezzetto di carbone di zucchero e una pistola minuscola, quasi invisibile o un mazzetto di carte da gioco, non era mai quello che aveva scelto. E pensava: - La Befana non mi ha capito. Ogni anno si recava davanti al negozio di Pagliuca e cambiava giocattolo per farglielo capire, ora il carrarmato, ora l’elicottero ma la Befana non indovinava mai. Lui ci rimaneva tanto male, non riusciva proprio a capire anche perché vedeva che ai suoi compagni più ricchi la Befana indovinava sempre. Poi con il tempo anche lui, facendosi più grande scoprì la verità e si convinse che la Befana era per i figli dei ricchi non per quelli dei poveri.




lunedì 3 gennaio 2022

IL MESE DI GENNAIO

 

Innaro scummoglia pagliar,

Ogni donna bella, brutta pare!

Addò stà chella bella giona tutta pumposa?

Sott a ru fucular tutta muccosa!



Così recita il detto mondragonese per indicare che in questo periodo dell’anno le temperature si irrigidiscono e il vento gelido è tale da scoperchiare perfino i pagliai. Anche la donna bella, con il freddo di gennaio, diventa brutta; lei, che va altezzosa della sua bellezza, lussuosa e appariscente, ora se ne sta sotto al focolare, al caldo, con il naso che cola , pieno di muco.

Si tratta di un mese più tranquillo per quanto concerne il lavoro dei contadini: una sorta di pausa durante la quale la natura offre ben poco e il lavoro in campagna diminuisce, un mese in cui le piante dormono, aspettando che il tempo faccia il suo corso anche se qualcosa, che al momento non si vede, già aspetta sotto il terreno brullo.

Era questo il periodo della potatura invernale, il periodo ideale per potare la maggior parte degli alberi durante il riposo vegetativo e per far legna; si raccoglievano, infatti, i rami delle piante e i tralci delle viti, le viticaglie, che, riunite in fasci, venivano utilizzate sia per accendere il fuoco che per scaldare il forno per fare il pane. Non solo si potavano le viti ma c’era anche il ricambio periodico delle canne di sostegno e poi la corretta piegatura e legatura dei tralci per la quale si usavano le vincelle, gli steli verdi della ginestra, sottili e flessibili, che si raccoglievano in montagna.

Gennaio era il periodo dell’anno in cui la famiglia contadina si radunava davanti al focolare, il mese in cui per scaldarsi si consumavano intere cataste di legna accumulate, e si raccontavano antiche storie mentre le donne sferruzzavano per fare calze o maglie e le giovani ricamavano il corredo.

Ci si copriva come meglio si poteva per ripararsi dal freddo e ci si riscaldava con il camino e con i bracieri , le gelide lenzuola venivano scaldate con lo scarfalietto. Le famiglie più povere si riscaldavano più semplicemente con dei mattoni di terracotta che mettevano nel letto avvolti in panni di lana per evitare scottature



Per accendere facilmente il braciere, alcune donne si recavano a ru lammicco, cioè alla distilleria della famiglia Petrone, a chiedere il fuoco, cioè i residui di carbonella accesi, provenienti dalla fornace, che venivano regolarmente dati senza alcun compenso perché Mondragone, a quei tempi, era un paese dove tutti si conoscevano e la gente era unita da vincoli di parentela, amicizia, comparatico e vicinato per cui sembrava di far parte tutti di una grande famiglia.

I senzatetto andavano di notte a cercare rifugio dal gelo al tepore delle caldaie della distilleria.

Da Natale alla Befana c’era più di un’occasione per fare festa dopodiché si ritornava alla vita ordinaria.

Nei giorni seguenti la massaia incominciava a procurarsi tutto ciò che serviva per ammazzare il maiale: lo spago, il peperoncino, il sale , i finocchietti ecc. tutto doveva essere pronto per la grande festa che comportava anche tanto lavoro, che però consentiva l'approvvigionamento per tutto l’anno delle tante prelibatezze della carne suina.


Arrivava poi la festa di sant’Antonio abate, un santo molto venerato nell’antica società contadina: protettore degli animali, ma anche dei nostri denti.