mercoledì 31 marzo 2021

Marzu marzott tu si passat



"Marzu marzott tu si passat
E la pecur meje nun so mort
Aprile, mio fratello ramm quatt jurnatell
C’aggia fa murì a tutte l pucurell!"

Questo detto mondragonese si riferisce ad un’antica leggenda del centro Italia. La leggenda racconta che Marzo, tanti anni fa, aveva solo 28 giorni ma, visto che gli uomini non lo temevano come i suoi rigidi fratelli Dicembre, Gennaio e Febbraio, decise di vendicarsi e lo fa tuttora. Riporto, qui di seguito, la leggenda:
Una mattina, sul cominciare della primavera, un pastore uscì con le pecore e incontrò Marzo per la via. Disse Marzo: “Buongiorno, pastore, dove le porti oggi le pecore?”
“Eh, Marzo, oggi vado al monte!”
“Bravo pastore, fai bene, buon viaggio!” E fra sé disse “Lascia fare a me; oggi li innaffio io per bene!”
Il pastore, però, che l’aveva squadrato ben bene in viso, aveva fatto tutto il contrario. La sera, nel tornare a casa, incontrò di nuovo Marzo.
“Ehi, pastore, com’è andata oggi?”
“È andata benone. Sono stato al piano: una bellissima giornata, un sole che scottava.”
“Ah, sì? Ci ho gusto!” (e intanto si morse un labbro) “E domani dove andrai?”
“Domani tornerò al piano. Con questo bel tempo…”
“Bravo, addio!”
E partirono. Ma il pastore, il giorno dopo, invece di andare al piano, andò al monte; e Marzo giù acqua e vento e grandine al piano. La sera trovò il pastore.
“Oh pastore, buonasera! E oggi com’è andata?”
“Benone! Sai, sono andato al monte. È stata una giornata d’incanto. Che cielo!
Che sole!”
“Bravo pastore… e domani dove andrai?”
“Eh, domani andrò al piano!”
Insomma, per farla corta, il pastore gli disse sempre il contrario, e Marzo non ce lo poté mai beccare. Si arrivò così alla fine del mese.
L’ultimo giorno Marzo disse al pastore: “Eh beh pastore, come va?”
“Va bene, ormai è finito Marzo e sono a cavallo. Non c’è più paura e posso star tranquillo…”
“Dici bene, e domani dove andrai?”
“Domani vado al piano, faccio più presto”
“Bravo, addio!”
Allora Marzo in fretta e furia andò da Aprile, gli raccontò la cosa e, infine, gli disse: “Ora avrei bisogno che tu mi prestassi un giorno”.
Aprile, senza farsi pregare, gli prestò un giorno.
La mattina dopo, il pastore fece uscire le pecore e andò al piano come aveva detto.
Ma, quando fu una certa ora e il gregge era sparso per i prati, cominciò una ventipiova da fare spavento; acqua a ciel rotto, vento e neve e grandine. Il pastore ebbe da fare e da dire a riportare le pecore all’ovile.
La sera Marzo andò a trovare il pastore, che era là nel canto del fuoco, senza parole, tutto malconcio, e gli chiese ironico: “Oh pastore, buona serata! Oggi com’è andata?”.
“Ah, Marzo mio, sta’ zitto, sta’ zitto, per carità! Oggi è stata proprio nera. Peggio di così neanche a mezzo gennaio; si sono scatenati per aria tutti i diavoli dell’inferno”.
E' per questo che marzo ha trentun giorni; perché ne ha preso in prestito uno da aprile.
Nella rielaborazione mondragonese della leggenda marzo non chiese solo un giorno ad Aprile ma quattro, “l quatt jurnatell” si riferiscono ai primi quattro giorni di aprile, detti “ quattro brillanti” o aprilanti.
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lunedì 29 marzo 2021

IL FIDANZAMENTO

TRADIZIONI DEL PASSATO: IL FIDANZAMENTO Una volta il fidanzamento era un evento speciale, un momento magico nella vita degli sposi, che veniva vissuto con grande passione. Bisogna ricordare che prima le ragazze non uscivano liberamente come oggi, i ragazzi le potevano vedere solo la mattina sui carretti, quando andavano a lavorare nei campi oppure durante le feste comandate come ad esempio, il Giovedì Santo, quando andavano a visitare i Sepolcri ma anche la domenica quando uscivano dalla chiesa; era allora, infatti, che i giovanotti in cerca di moglie aspettavano le ragazze, formando due file ai lati della strada. Se poi c’era una ragazza che colpiva un giovanotto, questi non si dichiarava direttamente a lei ma si rivolgeva ad una persona che aveva esperienza e sapesse fare da ambasciatrice e intermediaria, qui da noi detta “la ruffiana”, che con intrighi e sotterfugi cercava notizie sulla ragazza e sulla famiglia , cercando di sapere se era già impegnata con qualcuno, com’era caratterialmente ecc. La ruffiana doveva essere, inoltre, una persona convincente e accattivante per portare a buon fine il fidanzamento. La ragazza in questione, una volta ricevuto il messaggio, si poteva prendere un po’ di tempo per decidere e, se era interessata, poteva accettare, sempre con il consenso dei genitori. Il padre della giovane stabiliva, poi, il giorno in cui il giovane avrebbe potuto presentarsi a casa per un primo colloquio; era questo un momento particolarmente imbarazzante ed emozionante per il giovane, che doveva trovare il coraggio di chiedere la mano della giovane . In quell’ occasione si stabilivano i patti: se le visite potevano avvenire tutte le sere o solo il giovedì e la domenica o in altri giorni. La famiglia dello sposo, poi, si recava a casa della ragazza per fare la cosiddetta”conoscenza”. In quell’ occasione si decideva anche che cosa avrebbero portato in dote gli sposi. Il fidanzamento poteva durare anche diversi anni, a seconda delle possibilità economiche e dell’età dei ragazzi; se erano molto giovani durava diversi anni, se avevano più di 20 anni durava due o tre anni. Una volta impegnati, i fidanzati si potevano vedere solo la sera durante le visite a casa della ragazza, facendo lunghe chiacchierate a distanza, con controlli a volte esagerati, in presenza della famiglia riunita e mentre si parlava le ragazze svolgevano dei lavori di ricamo o cucito. Le ragazze, all’epoca, passavano la loro giovinezza a ricamare, in attesa del loro matrimonio e di quello delle sorelle. I fidanzati potevano uscire solo in rare occasioni accompagnati da qualcuno come il Giovedì Santo. La fidanzata non poteva mettere piede a casa del futuro marito, lo potevano fare solo i suoi familiari. Se il fidanzamento fosse andato male per la ragazza sarebbe stata una vergogna e non si sarebbe più sposata. Non sempre però i ragazzi che si sposavano si erano conosciuti e scelti da soli perché c’era anche l’usanza di fare i “matrimoni combinati”. Generalmente il fidanzamento e di conseguenza il matrimonio era qualcosa che veniva deciso dalla famiglia, specialmente se il giovane era ricco e benestante. Era la famiglia del ragazzo che individuava la ragazza che poteva andar bene per il proprio figlio perché a sua volta doveva avere ricchezze e proprietà. A volte quando le ragazze non avevano corteggiatori, erano le mamme stesse che si rivolgevano alle ruffiane con frasi del tipo: Mitt a figl(ie)m annanz a cacchrun cioè: - Metti mia figlia davanti a qualcuno. E significava: - Fa’ in modo che mia figlia venga vista da qualche giovane che possa andar bene per lei. Il corredo che la donna doveva portare in dote, “ a rot” era di panni venti o trenta e cioè venti o trenta lenzuola, asciugamani, tovaglie ecc. Un mese prima si facevano le beneauguranti scrippelle che si fanno ancora oggi , portate in dono ad amici e parenti. Il giovedì prima del matrimonio si mettevano i “panni esposti” e cioè tutto il corredo veniva esposto in bell’ordine a casa della sposa affinché amici e parenti, soprattutto quelli dello sposo lo ammirassero e verificassero se mancava qualcosa; se ciò avveniva, i suoceri potevano mandare a monte il matrimonio mentre i fidanzati non potevano profferire parola. Il momento più bello del fidanzamento era senza dubbio quello della serenata. La sera prima del matrimonio il giovane innamorato in compagnia di amici, aiutato da qualche amico che sapesse cantare e suonare, si recava sotto il balcone o la finestra della giovane per portarle la serenata e cantarle tutto il suo amore. Il giovane aspettava ansioso che la sua bella si affacciasse per quel gesto d’amore. Il giorno dopo , in seguito alla celebrazione del matrimonio, si faceva un rinfresco a casa dello sposo con confetti, e dolci fatti in casa, chi era più agiato offriva un pranzo preparato dalle donne di famiglia. Per tutta la settimana dopo le nozze la sposa non poteva uscire di casa perché era ritenuto sconveniente. La prima uscita era l’uscita “a Messa” dopo otto giorni , quando cioè gli sposi si recavano in chiesa e per l’occasione la sposa indossava un abito nuovo, confezionato apposta per l’occasione. Poi andavano a casa della sposa , che in questo modo poteva salutare la madre che non vedeva dal giorno del matrimonio.


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domenica 28 marzo 2021

A ’MMASCIAT

A ’MMASCIAT 
 Vi propongo un racconto della tradizione.
L’imbasciata o ambasciata, dal punto di vista etimologico, è un messaggio trasmesso per mezzo di un inviato o ambasciatore; nella nostra tradizione A ‘ MMASCIAT era la proposta di fidanzamento, che veniva portata da un parente stretto o da una persona di fiducia ma a volte anche dalla “capera”, la pettinatrice di una volta, che girava di casa in casa e veniva a conoscenza dei fatti di tutti.
A Mondragone, quando un giovane si voleva sposare, prima ne doveva parlare con i propri genitori, una volta ricevuto il consenso , poi, mandava la MMASCIATA da una persona di fiducia e poi poteva andare a parlare con i genitori di lei.
Una volta un giovane, dopo aver mandata la MMASCIATA tramite uno stretto parente, andò presentarsi a casa della ragazza per parlare ufficialmente con il padre e si fece accompagnare da amico, al quale raccomandò: - Te raccumann, quann chiglij vo sapé ij che teng, tu aument semp chell che dic ij! E l’amico rispose: - Nun t preoccupà, ce pens ij! Dopo i saluti e i convenevoli vari, il padre, che ci teneva ad informarsi della situazione economica del giovane, chiese: - Ma a cas a tenit? (Quando non c’era una conoscenza diretta, per rispetto, si dava del voi anche a una persona più giovane, anche i figli davano il voi ai genitori e ancora più anticamente si davano del voi anche i coniugi)
Il giovane rispose: - Sì sì, a teng na casarell! E l’amico, pronto: - Aé, na casarell? Chiglij ten nu palazzon che nun fernisce mai! – Ah! – fece il padre, molto interessato – E a terr a tenit? – E il giovane: - Sì , teng nu pezzarieglij d terr! E l’amico :- Sé sé, nu pezzarieglij ? Chiglij ten moije e moije d terra spas a lu sol! Il padre apprezzava sempre più e lo guardava di buon occhio, vedendo un buon partito per la figlia. Mentre parlavano il giovane fece un colpo di tosse e il padre premurosamente chiese: - Tenit nu poc d toss?E l’amico, credendo di dover aumentare anche in questo caso, disse: - Aé ! Nu poc d toss?! Chiglij è propt fracit ncuorp!!!
Chissà come andò a finire…..

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venerdì 26 marzo 2021

FRASCH(E) D FIURI MIEJ, D’ADDO’ AGGIA ACCUMINCIA’?!

FRASCH(E) D FIURI MIEJ, D’ADDO’ AGGIA ACCUMINCIA’?! A Mondragone si usa questo modo di dire quando ci si trova in una situazione ingarbugliata o di fronte a un lavoro immane da svolgere in cui le operazioni da fare sono tante e non si sa da che parte iniziare. Esso prende origine da un episodio raccontato nell’antica società contadina in cui il protagonista è un giovane, che la sera delle nozze, rimasto solo con la sua sposa, la spogliò, la mise sul letto e, girandovi intorno e mettendosi le mani nei capelli, esclamò: - Frasch(e) d fiuri miej, d’addò aggia accumincià?! Un paragone davvero delicato e gentile quello delle bellezze della sposa con lo spettacolo altrettanto bello e delicato che la natura ci offre dei rami in fiore. Fa sorridere il fatto che il giovane si trovi impacciato e indeciso nella situazione e fa ricordare i tempi passati, quando l’approccio amoroso tra fidanzati non era così libero come oggi. Tanti erano i divieti e le regole che tutti erano tenuti a rispettare ma c’è da dire che anche allora gli innamorati cercavano qualche sotterfugio per potersi incontrare.
Ringrazio Clara e la cara nonna, zia Giovannina Franchino.
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lunedì 22 marzo 2021

La pandemia della Spagnola

Ritornando alla pandemia della Spagnola, essa si diffuse rapidamente anche perché coincise con gli eventi bellici della prima guerra mondiale. I soldati vivevano ammassati nelle trincee, favorendo così la diffusione del virus ma a ciò si aggiungevano anche la malnutrizione, la scarsa igiene e gli ospedali da campo sovraffollati. A volte si verificavano casi di morte apparente come ci racconta Antonio Pompeo, di cui riporto integralmente la testimonianza:

Una cosa del genere successe a mio nonno, Giovanni Palumbo, durante la prima guerra mondiale. Al freddo della trincea, aveva contratto una polmonite fortissima e a causa della febbre molto alta, andò in coma. Quel giorno mancava l'ufficiale medico, così l'infermiere non molto esperto, pensò che fosse morto e, senza troppi scrupoli, fu portato nella camera mortuaria in attesa di essere seppellito. Passarono due giorni quando finalmente ritornò il Tenente medico che chiese del soldato Giovanni Palumbo, suo attendente, nonché suo omonimo, ma l'infermiere gli riferì che era deceduto. Il Tenente allora volle dargli l'ultimo saluto e mentre gli scopriva il viso, le sue dita esperte, riuscirono a percepire un barlume di calore sotto il naso. Questi pensò che fosse strano che una persona morta da 48 ore conservasse ancora del calore e cosi prese uno specchietto, glielo mise sotto al naso e vide che il vetro si appanno' e da li capì che mio nonno era ancora vivo. Così lo riportarono nell'ospedale da campo dove grazie alle sue cure si riprese del tutto.
GRAZIE, Antonio Pompeo

domenica 21 marzo 2021

AMMA I’ PA VIJ P SOTT O PA VIJ P COPP?


AMMA I’ PA VIJ P SOTT O PA VIJ P COPP?


Dopo la prima guerra mondiale si diffuse una pandemia influenzale, detta la Spagnola, che tra il ’18 e il ’20, uccise decine di milioni di persone nel mondo. Fu detta Spagnola perché fu riportata per la prima volta dai giornali spagnoli, la Spagna non era coinvolta nella guerra e la sua stampa non era soggetta a censura. Nei Paesi belligeranti, invece, la diffusione della malattia fu nascosta dai mezzi d’informazione.
A Mondragone morirono migliaia di persone e la popolazione fu sensibilmente decimata. Erano talmente tanti i morti che i riti funebri non si celebravano più proprio come adesso. Appena qualcuno moriva o sembrava morto, i familiari lo caricavano su qualche mezzo di fortuna e lo portavano al cimitero perché c’era molta paura del contagio. Ora avvenne che una volta un uomo, colpito dalla Spagnola, perse completamente i sensi. Credendolo morto, due dei suoi familiari lo caricarono su un carretto e si avviarono al cimitero. Arrivati alla strada, dove iniziano i cipressi, a sinistra, dove c’è il Criptoportico romano e la masseria Ciarpella, c’è una strada, parallela ma di livello inferiore, che pure porta al cimitero, detta “A via p sott”. Tra i due sorse una disputa per decidere se dovevano andare per la via di sotto o quella di sopra. Uno diceva: - Amma j’ pa via p sott! E l’altro: - No, amma j’ pa via p copp! E iniziarono a litigare. Il presunto morto, intanto, ripresosi, si alzò a sedere in mezzo al carretto e disse: - S(e)ntit, ij aggiu jut semp pa vi p sott, mo si l cos(e) so cagnat, nu lu sacci(o)! I familiari per la paura, scapparono a gambe levate, abbandonando il morto risuscitato e il carretto.
(La foto è tratta dal libro del prof. P. Schiappa "La fantasia e il mito"
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venerdì 19 marzo 2021

SCOST ST CIOC(E) CHE ALLURC(I) STA VEST O FATT LLA’ CU STU SCARPON?



SCOST ST CIOC(E) CHE ALLURC(I) STA VEST O FATT LLA’ CU STU SCARPON?

Vi propongo un racconto della tradizione.
Una volta una pastorella sentì il bisogno di entrare in chiesa a pregare la Madonna. Entrò tutta timorosa e si inginocchiò vicino ad una signora elegante e raffinata, tutta ingioiellata. Non osava neanche alzare gli occhi verso la Madonna e non sapeva come pregare e cercava di sentire le parole che diceva la signora, la quale, intanto, infastidita della sua presenza e preoccupata che potesse sporcare il suo bell’abito, diceva:- Scost st cioc(e) che allurc(i) sta vest! ( Le cioce erano i calzari tradizionali usati dai pastori, composte da suole di cuoio, fermate al piede per mezzo di strisce di cuoio intrecciate alla gamba). La poverina, avvezza solo al suo lavoro, credendo si trattasse di una preghiera, rivolta alla Madonna, iniziò a ripetere con fervore: Scost st cioce che allurc(i) sta vest! La Madonna commossa, la guardò e le sorrise e in quel momento un raggio di sole illuminò il volto della pastorella.
Questa storia veniva raccontata nel rione S. Nicola ma siccome le storie erano raccontate solo oralmente, spesso capitava che passando di bocca in bocca e di rione in rione, venivano cambiate da chi le raccontava semplicemente perché dimenticavano qualche particolare, che trasformavano a proprio piacimento.
Così nel rione S. Francesco si raccontava la stessa storia ma il protagonista era un pastorello, che si inginocchiò vicino ad un signore ben vestito , il quale gli disse: - Fatt llà cu stu scarpon! E il pastorello ripeteva, credendo si trattasse di una preghiera: - Fatt llà cu stu scarpon!

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sabato 13 marzo 2021

LU LATT D CIUCCI(A)



LU LATT D CIUCCI(A) Da diversi anni a Mondragone è stata ripristinata la festa del “ciuccio” che si faceva anticamente, anche se quest’anno non si farà a causa del corona virus. Con essa si intendeva salutare il Carnevale prima della Quaresima ed era considerata un rito di buon auspicio per il nuovo anno lavorativo degli agricoltori. L’asino è sempre stato un animale speciale, di grande aiuto per il contadino mondragonese. Anche il latte d’asina, oggi rivalutato, veniva apprezzato nell’antica società contadina e veniva utilizzato qualche volta nell’alimentazione dei bambini.

Negli anni ’50 nel rione san Francesco una donna, già mamma di due bambine , partorì un bel maschietto. La sua felicità era chiara e palese, aver avuto un figlio maschio la inorgogliva molto e la stessa levatrice, donna Rosa, che l’aveva seguita nel parto, quando la incontrava, l’apostrofava scherzosamente: - Ué, mamm e figl mascul!
Avere un figlio maschio voleva dire ricchezza per la famiglia perché il maschio avrebbe avuto braccia forti per lavorare; il maschio avrebbe continuato la discendenza , rinnovando nonni e zii con lo stesso nome e cognome e ne avrebbe perpetuato la stirpe. Avere una figlia femmina più debole, a cui bisognava procurare la dote per farla sposare era una preoccupazione in più per la famiglia. A quei tempi, comunque, la discriminazione tra i due sessi era molto forte e anche se oggi l’emancipazione femminile ha fatto passi da gigante si può senz’altro affermare che la parità tra i due sessi non è stata ancora raggiunta.
La donna voleva bene anche alle altre figlie, ma adorava il figlio maschio, anzi lo venerava, lo guardava e se ne compiaceva. Quando lo portava in braccio, lo esibiva quasi come un trofeo e siccome il bambino aveva un faccino tondo e roseo dai lineamenti delicati e perfetti con boccoletti biondi che lo facevano assomigliare ad un angelo, qualcuno lo scambiava per femminuccia e le chiedeva se avesse avuto un’altra bambina e lei, tutta contenta, si schermiva, dicendo che si trattava di un maschio.
Purtroppo, però, successe che mentre lo allattava, fu colpita da un ascesso a un molare ed assunse dei medicinali prescritti dal medico con la conseguenza che il latte acquistò un sapore amaro e il bambino non volle più saperne di succhiare, piangeva dalla fame ma non si alimentava più e in famiglia c’era grande apprensione per lui.
In breve i genitori vennero a sapere che un contadino di via Venezia soprannominato “Pandulino” aveva un’asina che da poco aveva partorito e che allattava il piccolo e il papà andò a chiedere se potevano avere un po’ di latte per il bambino. Il contadino non solo gli diede subito il latte, ma glielo fornì per tutto il tempo necessario fin quando il bambino, facendosi più grande, poté passare al latte vaccino.
A quei tempi anche se non si nuotava nella ricchezza, ci si aiutava nelle difficoltà e non si voltava la faccia dall’altra parte, quando c’era bisogno.
Il bambino riprese a nutrirsi, crescendo sano e forte con il latte d’asina.
La sua famiglia nutriva profonda gratitudine per quel contadino e quando si andava al mulino a macinare il grano per fare il pane, riportando a casa la farina e la crusca, mai ci si dimenticava di portare la crusca all’asina di Pandulino perché era usanza , all’epoca , dar da mangiare all’asino, oltre al fieno anche la crusca con le “suscelle” cioè le carrube. Dopo diversi anni il vecchio Pandulino morì e il bambino, ormai giovanotto, su consiglio della madre, si recò alle sue esequie, andò a salutarlo prima dell’ultimo viaggio, come si fa con parenti e amici.
Il bambino, crescendo, era diventato un giovane di bell’ aspetto, un rubacuori a detta di molti, esempio di onestà e laboriosità per tutti quelli che lo hanno conosciuto ma dal carattere testardo e ostinato.
Quando in famiglia si discuteva di qualcosa, tutti lo lasciavano perdere perché sapevano che con lui non l’avrebbero spuntata ma sarcasticamente commentavano: 
- Eh, tanto s sap che chiglij s’a pigliato lu latt de ciucci(a)!

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