domenica 31 ottobre 2021

ANEME SANTE MIE BEATE



ANEME SANTE MIE BEATE
a chistu munn site state ,
‘mpurgatorio ve truvate,
‘mparavise m’aspettate,
pregate la SS Trinità
pe le mie necessità
quanne jate ‘ncielo a gudè
e priate Dio pe me,
chelle figlie e chelle spose
comme stanno addulurate
O Gesù vuje che l'amate
Succurretel pe pietà .
Queste erano le parole di un’antica orazione della devozione popolare mondragonese per i Defunti,tramandatoci oralmente dagli anziani, ultimi custodi delle antiche tradizioni.
In essa le persone che la recitavano, chiedevano alle anime del Purgatorio, quando sarebbero andate in Paradiso, di pregare per le proprie necessità. Non sono solo i vivi a pregare per i Defunti ma, viceversa, anche i Defunti a pregare per i vivi. E’ sempre esistito, dunque, questo aiuto reciproco, che nasce dalla “Comunione dei Santi”. Nel Credo recitiamo: -Credo nella Santa Chiesa cattolica e nella Comunione dei Santi. Per essa si intende l’insieme di tutti i credenti in Cristo, sia quelli in vita che quelli viventi nell’aldilà, sia in Purgatorio che in Paradiso. In questo insieme o Comunione avviene, quindi, l’unità della fede, il fluire della Grazia e l’interscambio dell’aiuto reciproco tra i credenti, quelli in cammino sulla terra e quelli vivi nell’aldilà.
Qui a Mondragone, poi, come anche in altre località italiane, era diffusa la convinzione che i Morti, in occasione della loro commemorazione, tornassero a casa propria, tra i propri familiari. Per questo motivo, la sera di Ognissanti, si usava lasciare la tavola apparecchiata con il pane e l’acqua per permettere ai propri cari di rifocillarsi dopo il lungo viaggio per tornare dall’aldilà e una candela accesa alla finestra. Non c’era nessuna paura della morte in quel rito se non forse un desiderio, una speranza recondita che alle anime dei propri cari fosse consentito di poter tornare per un po’ nella propria casa , tra i propri familiari, che loro malgrado avevano dovuto lasciare. Si credeva, inoltre, che rimanessero nelle proprie case fino all’Epifania. Difatti un nostro detto popolare recita: “Le fest jessen e venessen ma Pasca Epifania nun mai veness” proprio perché in quella data si credeva che dovessero andar via.
In realtà si tratta di credenze legate agli antichi culti pagani. Già nell’antica Grecia durante le Antesterie, feste che duravano tre giorni, a fine inverno, si cuocevano grandi pentole di ceci, fave, fagioli,che venivano esposte sugli altari e offerte alle anime dei Morti, tornate sulla terra, affinché si rifocillassero prima di intraprendere il lungo viaggio di ritorno nell’aldilà.
All’epoca dei primi Cristiani queste tradizioni pagane erano ancora molto presenti e la Chiesa cattolica faceva fatica a sradicarle. Fu per questo motivo che nell’835 papa Gregorio II spostò la festa di tutti i Santi dal 13 maggio al primo novembre, pensando di dare un nuova significato ai culti pagani. Nel 998 , poi, fu sant’Odilone, abate di Cluny, che aggiunse al calendario cristiano, il 2 novembre come data per commemorare i Defunti.

giovedì 28 ottobre 2021

ORAZIONE DI SAN SIMONE

 Cari amici, anche in tempo di Covid, non dimentichiamo le nostre tradizioni…. L’ORAZIONE DI SAN SIMONE

Il 28 ottobre la Chiesa ricorda la figura di S. Simone apostolo insieme a S. Giuda Taddeo.
A Mondragone, quando si era affetti da dolori addominali, si ricorreva a qualche donna che conosceva l’orazione di san Simone "pe ingiarmà ru maistrone" cioè per far passare il mal di pancia.
La parola inciarmare nel dialetto napoletano derivava dalla lunga dominazione francese a Napoli e denotava l’incantesimo dei serpenti; poi con il tempo, passò a designare l’operato del ciarlatano e dell’impostore.
A Mondragone l’ inciarmatore era la persona che con preghiere e rituali curava e guariva le malattie, segnando, facendo cioè segni di croce sulla parte ammalata. Non era difficile trovare in ogni famiglia qualche zia, mamma o nonna che avesse la virtù di curare alcuni mali, tra cui il mal di pancia. L’ “inciarmatrice” faceva distendere l’ammalato e massaggiando la pancia con dell’olio di oliva recitava o meglio mormorava sottovoce l’orazione perché le parole non fossero sentite né divulgate.
Santu Simone in pellegrinaggio jeva
A casa de nu cuntadino s’alluggette
Maritu roce e mugliera amara
Lietto de paglia e vrole de ciceri
Maistrone fatti llà
San Simone andava pellegrino (forestiero).
In casa di un contadino s’alloggiò
Marito dolce e moglie amara
Letto di paglia e acqua di cottura di ceci
Mal di pancia vai via
L’ episodio narra di san Simone, che, pellegrinando, chiese ospitalità in casa di un buon contadino che aveva, però, la moglie malvagia. La donna, avara e inospitale, offrì a san Simone solo un giaciglio di paglia per dormire e al posto del cibo solo acqua di cottura dei ceci, provocando in lui il mal di pancia, causato dal digiuno, che è non riferito nel testo, ma sottinteso.
Ecco perché la donna guaritrice, rievocando questo episodio con fede e devozione, intima al mal di pancia di andar via.
Anche in Sicilia si recitava un’orazione simile.
La somiglianza delle due orazioni sta a dimostrare che talvolta alcune tradizioni nascono da riti e formule precedenti, di cui si è venuti a conoscenza e dalla continua mescolanza di culture, che arricchisce le tradizioni autoctone, come da sempre è avvenuto nella storia dell’umanità.
San Simone veniva soprannominato “Cananeo” o “Zelota” per distinguerlo da Simon Pietro. Il Vangelo parla poco di lui, ma sappiamo che faceva parte del gruppo degli Apostoli. Ricevuto, insieme agli altri, lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, predicò la Parola ai popoli dell’Egitto e della Mauritania. Recatosi in Persia, fu assalito e crocifisso da sacerdoti idolatri.
San Giuda fu soprannominato “Taddeo” per non confonderlo con Giuda, il traditore di Gesù. Era figlio di Cleofe e Maria, una cugina della Vergine. Predicò nelle Indie, in Samaria, in Siria e in Persia , dove subì il martirio, suggellando con il sangue i suoi insegnamenti.
( Ringrazio @Andrea Capuano, appassionato studioso di folclore e cultura mondragonese, che mi ha fatto conoscere quest’antica orazione).




lunedì 18 ottobre 2021

Proverbi

 


Ecco alcuni proverbi legati al mondo avicolo:

FIGLJ D’AGLIN ‘NTERR RUSP
Significa che chi è figlio di gallina non può elevarsi come gli altri uccelli, deve per forza becchettare a terra. Lo si usa anche per indicare che il figlio di qualcuno si comporta come sua madre o come i genitori, in senso positivo o negativo; può essere, quindi, usato per fare un complimento o viceversa, come offesa.

QUANN SO TANTA VUAGLJ A CANTA’ NUN SE FA MAI JUORN
Sta a significare che se sono in troppi a comandare non si sa a chi obbedire e, di conseguenza , nella confusione, nessuno riuscirà a portare a termine i propri compiti.

AGLIN DA RU PIZZUL FA GL’UOV
La gallina dal becco fa l’uovo cioè dal buon cibo ed è per questo che le massaie sono molto attente all’alimentazione delle proprie galline.

AGLIN FA GL’ UOV E A RU VUAGLJ RI ‘NGEGN RU CUL
Ossia la gallina fa l’uovo e al gallo brucia il sedere. Caso mai il problema lo dovrebbe avere la gallina che fa l’uovo non il gallo, che non deve fare niente. Si usa quando c’è qualcuno che lavora tranquillamente e con impegno e qualcun altro che non fa niente e si lamenta pure.

mercoledì 13 ottobre 2021

‘NTIEMP DE V(I)NACCIA

 NTIEMP DE V(I)NACCIA CHI VO’ L’OV S(E) L(E) FACCIA



Secondo questo detto mondragonese quando è tempo di vinacce cioè tempo di vendemmia con la conseguente spremitura delle uve, le galline non depongono le uova.
Infatti è proprio nel periodo tra settembre e ottobre che questi volatili fanno la muta e, poiché impegnano le loro energie nel cambiamento del piumaggio, sospendono momentaneamente la deposizione delle uova.
Le uova nell’alimentazione contadina sono sempre state un’importante fonte di proteine a basso costo, un secondo piatto energetico e sbrigativo da preparare in tutti i modi: al tegamino, sodo, sotto forma di frittata ecc. , aggiunte alle zuppe di verdura, che facevano in questo modo da primo e da secondo piatto. Si bevevano, un tempo, crude, bastava fare un buchino sopra e uno sotto e succhiare. Chi non ricorda, poi, lo zabaglione, fatto di uova sbattute e zucchero con l’aggiunta di marsala?
Quasi tutte le famiglie, in passato, avevano il pollaio, che veniva seguito e gestito dall’esperta massaia, era lei che preparava e gestiva le covate, faceva l’ispezione rettale per controllare se la gallina aveva l’uovo e se non ne aveva per niente ed era lì solo a mangiare, veniva subito sacrificata magari per un buon brodo ma era questa la fine che faceva ogni gallina quando era ormai alla fine della suo ciclo produttivo; le massaie più esperte erano in grado anche di castrare i galli per farne capponi per Natale, dalle carni tenere e delicate. Ritorna ancora alla mente l’immagine della massaia, che distribuisce il becchime e tutti i polli che le corrono incontro…
Il pollaio era una piccola risorsa economica per la massaia, una modesta occasione di guadagno perché non era finalizzato solo alla produzione delle uova e della carne per la famiglia ma anche orientato alla vendita dell’eccedenza, per la massaia era un piccolo salvadanaio che poi utilizzava per i bisogni della famiglia.

martedì 12 ottobre 2021

ZI VICIENZ ‘NCOPP O POLLIC(E)


Era un uomo non molto alto, occhi azzurrissimi e capelli neri ricci e ribelli, per nulla curati, buffo nel modo di camminare e nel comportamento. Viveva, come si direbbe oggi, alla giornata, da “barbone”, sempre sporco e malconcio. Quando, nell’antica società contadina, in ogni famiglia si faceva il pane nel forno a legna, lui andava in montagna a raccogliere fasci di legna da ardere su commissione per pochi soldi ma si adattava a fare qualunque altro lavoretto gli venisse richiesto e chi gli dava un piatto di minestra o un po’ di pane o qualche indumento vecchio.
Aveva il vizio del bere e per questo i ragazzi, quando lo vedevano, lo canzonavano e alzando il pollice come per indicare l’atto del bere, gli dicevano:- Zi Vicié, ‘ncopp o pollic(e) !!! Lui si arrabbiava tantissimo e li rincorreva. Una volta, in piazza, dei ragazzi , acchiappandolo da dietro, a sorpresa, lo sollevarono in alto, gridando:- Zi Viciè, ‘ncopp?! Lui, come faceva di solito, diede in escandescenze: - Disgrazziat! Disgrazziat!...
Quali saranno state le vicissitudini che lo spingevano a vivere così ormai non ci è dato più sapere ma le battaglie che combatteva ogni giorno per vivere o meglio per sopravvivere quando c’era tanta povertà, possiamo immaginarle.
Un volto “vero” non una maschera, come direbbe Pirandello, rimasto impresso nella memoria popolare non solo perché era lo spasso dei ragazzi, che lo sfottevano per puro divertimento ma forse anche per quel suo dramma esistenziale e per quelle difficoltà del vivere quotidiano, che del resto ci accomunano e ci coinvolgono tutti, chi in un modo e chi nell’altro.





lunedì 11 ottobre 2021

RI MUORT FANN CAMPA’ RI VIV!

 RI MUORT FANN CAMPA’ RI VIV!

Sembra un’affermazione paradossale e qualcuno si potrebbe chiedere: - Ma i Morti, se son morti, come faranno a far campare i vivi? E invece no, lo è solo apparentemente perché i Morti, a pensarci bene, proprio grazie alla loro morte, procurano lavoro ai vivi, sia a coloro che lavorano nelle pompe funebri per il trasporto, la cerimonia funebre e sia a quelli che lavorano nei cimiteri per il seppellimento, la riesumazione ed altro.

A dire il vero, i nostri antenati sono sempre stati attenti osservatori della realtà, da cui ricavavano massime e detti, ma non solo … Erano volitivi e sanguigni, non si facevano certo passare la mosca per il naso, ma anche onesti e laboriosi, spassosi e divertenti, nella vita quotidiana.
Mi viene ancora da ridere quando penso che litigavano, prendendosi “a pietrate” alle Spine Sante, quando non approvavano certi fidanzamenti che non garbavano alle famiglie.
E direi che anche oggi noi non siamo da meno, ferrigni e ironici nell' affrontare la vita quotidiana; d’altra parte, se discendiamo da loro, ce l’abbiamo nel DNA.



domenica 10 ottobre 2021

LA RACCOLTA DEL GRANTURCO

 Nel susseguirsi delle stagioni, a tarda estate, nel mese di agosto, avveniva la raccolta del granturco, un cereale, nella tradizione contadina mondragonese, largamente coltivato perché aveva un utilizzo rilevante nell’alimentazione: serviva da becchime per il pollame o veniva macinato per ottenere la farina gialla per fare la polenta oppure miscelata alla crusca serviva per preparare il pastone, ru vron per il maiale e per i polli.

In alcuni periodi del passato in cui c’era penuria di grano, a Mondragone ma anche in altre parti d’Italia , si usava fare il pane con la farina di granturco, più economica e diffusa; era il pane dei poveri e dei contadini , che non potevano accedere alla farina di grano più rara e preziosa; il pane bianco era riservato ai più ricchi o ai giorni di festa; si tratta di un’usanza che è andata a scomparire già dal primo dopoguerra; rimase però l’usanza , qui da noi, ancora per un certo periodo di fare le frese di rannerinio, che si ottenevano miscelando farina bianca e la farina di granturco, saporite e croccanti.
Con la farina di granturco si usava anche fare una specie di pagnottella, ru pagnuott , profumato e dal sapore dolciastro, dalla mollica color giallo oro, di cui i ragazzi andavano ghiotti; si otteneva,
impastando insieme alla farina di granturco già cotta e raffreddata, una parte minore di farina bianca, il lievito e l’uva passa, e veniva poi infornato su foglie di cavolfiore.
Quando poi si ammazzava il maiale a tutto il vicinato si mandava il piatto di polenta, la pastacotta con le cicole , mentre a tutti i parenti più stretti si mandava anche l’arrosto . Quando si scioglieva la sugna o strutto nella caldaia, ru caurar , rimanevano dei cicoli e la sugna, attaccata sul fondo; anziché pulirlo, vi si allungava l’acqua , aggiungendo la cannella, la buccia di limone e il sale; quando l’acqua arrivava a bollore, vi si gettava la farina e rimestando di continuo si cuoceva la polenta morbida e profumata.



giovedì 7 ottobre 2021

A PRIMA PAROLA E’ CHELL CH’AVAL!


Tanto tempo fa, nel periodo della mietitura,un proprietario terriero aveva urgenza di mietere il grano ma essendo periodo di “chiena” cioè periodo in cui tutti venivano impegnati in questo lavoro, non riusciva a trovare operai. Allora decise di rivolgersi ad una squadra di zingari ma lo fece a malincuore perché insicuro della loro affidabilità, sperando in cuor suo che non facessero qualche furbata delle loro. Gli zingari accettarono e di buon mattino si recarono presso il terreno indicato. Il proprietario, come era usanza, preparò una “verta” ossia un pranzo al sacco, ricco di ogni ben di Dio per far bella figura. Lo zingaro più anziano si rivolse alla squadra, dicendo: - Vuagliù, amma mangià o amma met? E tutti in coro risposero: - A prima parol è chell ch’aval! E così tutti si sedettero e consumarono la verta di buon appetito. Completato il pasto, il capo degli zingari si rivolse di nuovo ai suoi: - Vuagliù ce n’amma ì(re) o amma met? E di nuovo tutti in coro: - A prima parol è chell ch’aval! E così se ne andarono sazi e senza mietere il grano.

Non sappiamo se quest’episodio è un fatto realmente accaduto o una storiella inventata che ci è giunta dalla tradizione ma è, comunque, molto divertente ed esemplificativa del rapporto che intercorreva tra gli zingari e i Mondragonesi.
Nel rione S. Angelo si è sempre avvertita la presenza degli zingari, che vi si sono insediati stabilmente non si sa bene da quando, vivendo isolati e suscitando molta diffidenza nei compaesani. C’era una convivenza, si potrebbe dire, molto guardinga da parte dei Mondragonesi. Il lavoro degli zingari consisteva nella compravendita di cavalli, asini, maiali ma eseguivano anche lavori in ferro battuto su richiesta delle persone relativi ad attrezzi per l’agricoltura, coltelli ecc. Parlavano una lingua incomprensibile ed erano portatori di usanze e tradizioni, che i Santangiolesi, loro vicini di casa, hanno avuto modo di osservare e di raccontare, quali i matrimoni, che celebravano secondo usanze alquanto primitive ma nello stesso tempo affascinanti con balli, canti e musica gitana, la serenata che facevano prima delle nozze, il rispetto del lutto, che gli uomini osservavano non radendosi più per molto tempo, quando moriva qualche congiunto.
Nella memoria popolare è rimasta soprattutto la figura di quelle zingare dal corpo florido con gonne lunghe e vistosi orecchini e collane di oro massiccio, che giravano per il paese sempre in due o tre, si avvicinavano alle donne nei cortili con il pretesto di leggere la mano e di predire il futuro e, mentre una leggeva, le altre si intrufolavano in casa e rubavano quello che trovavano oltre a ripulire i pollai. Oggigiorno i pochi zingari rimasti si sono adeguati alle nostre usanze, sono inseriti nel contesto socioculturale del paese in maniera più regolare con occupazioni e lavori di vario genere , sono diventati cittadini mondragonesi a tutti gli effetti e godono di tutti i diritti civili e politici, i loro figli frequentano regolarmente la scuola e la parrocchia. Quelli che vivono nel rispetto delle regole di convivenza con l ‘intenzione di un futuro migliore hanno diritto a tutta la nostra solidarietà nel favorirne l’integrazione e la valorizzazione, non certo l’intolleranza, che genera solo odio, violenza e razzismo.
(Ringrazio Emilio Cuoco per avermi riferito il divertente episodio) L' illustrazione, realizzata dai miei alunni, è tratta dal libro " Mondragone: echi del passato"
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mercoledì 6 ottobre 2021

STA LLA’! STA LLA’! STA LLA’!


Una moglie diceva sempre al marito che lo amava tanto e che se lui fosse morto, non avrebbe voluto più vivere, che piuttosto avrebbe voluto morire lei al posto suo. Il marito, un giorno, ne parlò con il compare, dicendo: - Cumpà, teng na muglier che me vo ben cchiù da vita soja, che nun vo campà senz d me,figur(a)t(i) che vuless murì ess a ru postu mij! E il compare, che era l’amico più fidato, suo fedele consigliere, rispose: - Eh cumpà, jammece chian, s’adda semp v(e)ré! Putimm fa na prov, tu fa fint che si muort che po ce pens io! Il marito lo prese in parola e un giorno finse di sentirsi male e di morire. La moglie, costernata e tutta impaurita, chiamò amici e parenti e, vestito il finto morto, lo deposero sul letto e iniziarono la veglia funebre. Arrivata la sera, mentre tutti al buio vegliavano la salma, l’ingegnoso compare accese una candela e la fissò sul guscio di una tartaruga, mandando la bestiola verso la moglie, la quale, vedendo solo la lucina che andava verso di lei e pensando che fosse la Morte che veniva a prendere il marito, disse: - Sta llà! Sta llà! Sta llà! , cercando di indirizzare la luce verso di lui. E il marito , aprendo gli occhi: - Ah, ma tu non vuliv murì a ru postu mio? Era chest lu ben che me vuliv?

( Ringrazio la mia amica Marisa Improta, mondragonese di nascita ma residente a S. Pietro al Tanagro (SA) per questo episodio, che raccontava la sua mamma, la nostra cara “comm Amalia”, a cui piaceva tanto raccontare storie , anche quando andavano in campagna a vendemmiare, facendo divertire tutti)

martedì 5 ottobre 2021

RAT A DON DUNAT CHE RI JUORN SO SUPRAT

Quest’antica storia, raccontata nel rione S. Angelo, ci insegna che non bisogna mai essere troppo certi e sicuri di quello che la vita ha in serbo per noi.

Due coniugi molto anziani e senza figli, pur essendo benestanti, avevano condotto sempre una vita all’insegna del risparmio e della parsimonia e avevano accumulato una certa ricchezza. Pensando che si stessero avvicinando ormai i giorni della loro dipartita terrena, il marito, un tale don Donato, disse alla moglie: - Mugliera mia, ri juorni nuost stann a fernì, nun tenimm manc a nisciun pe ce lassà a robb nost e allor sai che te ric(o)? Verimmecenn ben! Così si diedero da fare e tra una cosa e l’altra, riuscirono a consumare e dilapidare le loro sostanze fino all’ultimo. Fatto sta che non morirono ma continuarono a vivere, pur non avendo più nulla. Allora il poverino si vide costretto a chiedere l’elemosina davanti alla chiesa e allungando la mano, diceva: - Rat a don Dunat che ri juorn so suprat! (avanzati)

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