UN TUFFO NEL PASSATO: L’ANTICA TRADIZIONE DELLA MIETITURA
La mietitura era una sorta di resoconto finale dell’annata, durava all’incirca un mesetto, dalla seconda metà di giugno alla prima metà di luglio, periodo variabile a seconda della maturazione del grano, dell’esposizione al sole del terreno e delle condizioni metereologiche e si mobilitava per essa tutto il mondo contadino: intere famiglie partivano armate di arnesi per mietere, fatti affilare dall’arrotino, mussuri e faucioni.
Nelle prime ore del mattino, quando era ancora buio, le strade di campagna si popolavano di traini con a bordo uomini, donne e bambini, guidati dalla luce fioca della lanterna a petrolio.
Arrivati in campagna, tutti per proteggersi dal sole si vestivano adeguatamente con scarponi e calze grosse, fazzoletti in testa. Appena arrivati, i contadini si distribuivano sui lati del campo e ciascuno prendeva la sua direzione, passando intere giornate a mietere il grano sotto il sole cocente, a falciare le spighe a schiena ricurva.
Man mano che si mietevano le spighe, si formavano le regne, cioè i fasci che venivano legati. Una volta mietuto un bel pezzo di campo si raccoglievano le regne per poi formare i covoni in attesa della trebbiatura. Quando si mieteva si sentiva spesso dire: - Mieti sotto, miè! Che significava mietere a fior di terra per ottenere molta paglia che serviva come foraggio per il bestiame durante l’inverno.
Il mietitore più in gamba veniva chiamato “ ru spaccarano” e occupava il centro del campo e aveva alla sua destra tutti gli altri mietitori. (tratto da “Mondragone: scorci di vita passata” di Antonio D’Amato)
Era usanza che il proprietario del fondo mettesse nel campo, il giorno delle Palme, un ramoscello d’ulivo benedetto: con esso il contadino chiedeva al Signore protezione nella difesa del campo dai parassiti, dalle intemperie e dai malefici ma anche di ottenere un raccolto abbondante. Il mietitore che lo trovava aveva diritto a un premio.
La comitiva dei mietitori si fermava per il pranzo consumato all’ombra di alberi frondosi, esso consisteva in pane, pomodori, formaggio, cipolle e vino rosso ma il proprietario del campo non mancava di portare un bel prosciutto da condividere con tutti i mietitori.
Al momento del pranzo poi c’era sempre qualcuno che sapeva suonare la fisarmonica e si intonavano canti popolari e si improvvisavano balli.
Si cantava anche mentre si mieteva perché il canto aiutava a vincere la stanchezza e a dare vigore al corpo. Dopo aver completato la mietitura le persone più povere che non avevano terreni chiedevano il permesso di andare nei campi a spigolare cioè a raccogliere le spighe rimaste e il permesso veniva sempre accordato poiché si viveva in un’era di maggiore solidarietà.
Per completare poi la mietitura i contadini erano soliti bruciare le stoppie dopo Ferragosto ed essendo un’operazione pericolosa appiccavano il fuoco e lo sorvegliavano con molta attenzione. Veniva fatto di sera da più persone per poter affrontare insieme eventuali imprevisti favoriti dal vento.
Dopo alcuni giorni il grano veniva trasportato sulle arie , grandi spazi aperti, in posizione ventilata, per la trebbiatura. Nel paese, ce n’erano diverse, dislocate nei rioni, dove ognuno poteva portare il proprio grano per trebbiare. Si trasportavano le regne con i traini, si caricavano e si scaricavano con le furcate. Venivano stesi per terra grandi teloni su cui venivano adagiate le regne, slacciate. Il modo più antico e semplice di trebbiare il grano fino all’ ‘800 era quello che si eseguiva con il correggiato.
L’operazione consisteva nella battitura del grano per mezzo di un attrezzo, l’auiglio, composto da due bastoni di lunghezze diverse, uniti insieme da una cinghia di cuoio. La parte lunga costituiva il manico, quello corto serviva per percuotere il grano.
I contadini in circolo si accordavano su chi doveva battere il primo colpo, al quale seguiva in senso rotatorio il vicino e così via. Dopo le prime battute lente e incerte , il ritmo cresceva e i colpi diventavano un suono ritmico e armonico scandito dal volteggiare dei bastoni.
Di tanto in tanto il grano veniva rivoltato con la forca fino alla completa trebbiatura, cioè fino a che i chicchi non uscivano dalla spiga.
C’era anche la trebbiatura con il calpestio degli animali. Il grano veniva schiacciato dal mulo o dal cavallo, che veniva prima dissetato e sfamato, poi dotato di paraocchi per ridurre il suo campo visivo, veniva guidato dal contadino secondo una traiettoria circolare tramite una fune legata alla testa; il contadino faceva muovere l’animale in cerchio , il quale schiacciava le spighe liberando i chicchi dal loro involucro e un altro contadino rivoltava il grano con il forcone dopo il passaggio dell’animale.
Dopo aver trebbiato il grano con ciascuno di questi metodi era necessario separare i chicchi dalla paglia a e dalla pula e occorreva farlo in una giornata ventosa . Si stendeva un telo per terra, con una pala si raccoglieva il grano e si metteva nei setacci, che le donne impugnavano verso l’alto, all’altezza della spalla, facendo cadere controvento una piccola quantità alla volta. Il vento portava via la pula e i chicchi cadevano sul telo.
All’inizio del ‘900 comparvero le prime trebbiatrici , qui a Mondragone la macchina fu portata tra gli anni 20/30 e si andava a noleggiare a Sparanise, da dove veniva trasportata da due buoi. Ogni famiglia che aveva mietuto trasportava il grano dove era stata posizionata la trebbiatrice e aspettava il suo turno per trebbiare.
La procedura prevedeva l’impiego di più persone: c’era chi inseriva il grano nella macchina, chi lo incanalava nel carrello, chi lo tagliava per far procedere la macchina senza intoppi, chi si posizionava all’uscita dei bocchettoni con i sacchi per mettere il grano.
Era un lavoro senza sosta, che richiedeva forza e attenzione continua, tra un immenso pulviscolo sparso nell’aria. A fine giornata i volti dei contadini , anche se sporchi , sudati e segnati dalla fatica esprimevano la soddisfazione di aver messo a frutto l’intero lavoro di un’annata.
Intorno agli anni 50/60 c’è stato l’arrivo della mietitrebbiatrice meccanica, che ha eliminato la mietitura manuale, lunga e faticosa, passando così ad una prima meccanizzazione dell’agricoltura.
Quegli immensi campi, quelle intere giornate di duro lavoro venivano così ridimensionate.
Oggi il lavoro lo compie la macchina con un solo operatore, si tratta di una macchina che è in grado di mietere e dare direttamente come risultato finale il grano pulito e pronto.
La mietitura era un lavoro davvero faticoso ma che coinvolgeva tutti ed era anche un’occasione per i giovani di vedere le ragazze, a cui non era concesso di uscire con tanta facilità come oggi, era occasione di grande convivialità attraverso balli, canti e divertimento ma soprattutto essa dava grande soddisfazione ai lavoratori per essere riusciti a procurare alla famiglia il pane, l’alimento principale, simbolo della vita.
Alla mietitura sono legati alcuni detti popolari.
Il primo dice: “ A femmena prena pure sotto a regna trema!”e sta a significare che se una donna è incinta, può tremare anche quando fa molto caldo, nel periodo della mietitura, per condizioni legate non al tempo ma alla gravidanza.
Un altro detto dice: Oi patronu mio
si vuo mete lu rano
E caccià carne e maccaruni
o sinnò lu rano te lu mieti tu
In questo caso sono i braccianti che si rivolgono al padrone, dicendogli di preparare per loro un buon pranzo, se vuole la mietitura del grano. Sapevano bene che il padrone aveva bisogno delle loro braccia per la mietitura e gli intimavano, molto apertamente, di trattarli bene.
Un altro detto afferma: Sciò quarella, sciò! Per far volar via gli uccellini che andavano a beccare i chicchi di grano.
Un altro detto ancora:
Chi va appriess agl’aucieglij che vola
Nun ce port lu ran a la mola!
Sta a significare che chi , invece di mietere, si mette a guardare l’uccello che vola, non riuscirà a portare il grano al mulino.