sabato 2 agosto 2025

A SUNAT VINTINOR!


Da bambina, più di 60 anni fa, sentivo quest’espressione da mia nonna, senza capirne il significato.

Non c’erano ancora orologi, all’epoca, ed era il suono delle campane che scandiva il ritmo delle giornate dei contadini, oltre che richiamare i fedeli alle funzioni e celebrazioni religiose.
Quando il contadino andava in campagna in terre lontane e senza orologio, dalla posizione del sole e dal suono delle campane, poteva desumere l’ora.
Era un suono legato a tradizioni e usanze locali, trasmesso di generazione in generazione, che poteva cambiare da paese a paese.
Oggigiorno siamo abituati a contare le ore da mezzanotte a mezzanotte. In passato, invece, si contavano da tramonto a tramonto perché si pensava che con il tramonto finisse la giornata e che ne cominciasse un’altra.
Al tempo del Vangelo, invece, al tempo dei Romani, si contava dall’alba all’alba.
Il difetto di questo modo di contare era che il tramonto e l’alba non erano fissi ma variavano da una stagione all’altra.
Considerato che il sole tramontava all’incirca alle ore 18 del pomeriggio, le 18 erano considerate l’ultima ora del giorno, corrispondente alle 24 di oggi.
Quindi, se le 18 erano le ore 24 , le 15 erano le 21 e ricordavano la morte di Gesù. Ventunore, perciò, erano le ore 15.
C’era anche una strofetta che si recitava al suono della campana:

"Benedett vintunore
Quann è mort Nostro Signore
Sott agl’uocch de Maria
Pe la salvezza dell’anima mia."

Al mattino, il suono del Mattutino, serviva a richiamare i fedeli alla preghiera e segnava l’inizio del giorno, alle 12 per ricordare la preghiera dell’ Angelus Domini, che coincideva anche con l’ora del pranzo, alle 15 per ricordare la morte di Gesù e alle 18 il Vespro, la preghiera della sera, che coincideva con il tramonto del sole e significava la fine della giornata.
Per il Vespro, però, la campana suonava tre volte, la prima volta, un’ora prima del tramonto e veniva chiamata Ave Maria delle 23, cioè un’ora prima della fine della giornata e per il contadino voleva dire lasciare il lavoro e incamminarsi verso casa.
Alle 18 suonava l’Ave Maria delle 24 e segnava la fine ufficiale della giornata .
Il terzo suono era detto Ave Maria di un’ora di notte e significava che era già trascorsa un’ora della notte ed era pericoloso trovarsi in cammino e si recitava il Requiem Aeternam per i Defunti.
Inoltre se la campana suonava a morto, dal numero dei rintocchi si capiva se era morto un uomo, una donna o un religioso.
Le campane servivano anche ad avvisare i fedeli se c’era un incendio o qualsiasi altro pericolo che potesse minacciare la comunità, insomma avevano un linguaggio universale , da tutti compreso.
Oggigiorno si sente dire che le campane possono dare fastidio e che il loro suono deve essere regolato in modo da non disturbare nessuno.

(Nella foto il campanile della chiesa di S. Francesco)









sabato 28 giugno 2025

L’ANTICA TRADIZIONE DELLA MIETITURA






UN TUFFO NEL PASSATO: L’ANTICA TRADIZIONE DELLA MIETITURA
La mietitura era una sorta di resoconto finale dell’annata, durava all’incirca un mesetto, dalla seconda metà di giugno alla prima metà di luglio, periodo variabile a seconda della maturazione del grano, dell’esposizione al sole del terreno e delle condizioni metereologiche e si mobilitava per essa tutto il mondo contadino: intere famiglie partivano armate di arnesi per mietere, fatti affilare dall’arrotino, mussuri e faucioni.
Nelle prime ore del mattino, quando era ancora buio, le strade di campagna si popolavano di traini con a bordo uomini, donne e bambini, guidati dalla luce fioca della lanterna a petrolio.
Arrivati in campagna, tutti per proteggersi dal sole si vestivano adeguatamente con scarponi e calze grosse, fazzoletti in testa. Appena arrivati, i contadini si distribuivano sui lati del campo e ciascuno prendeva la sua direzione, passando intere giornate a mietere il grano sotto il sole cocente, a falciare le spighe a schiena ricurva.
Man mano che si mietevano le spighe, si formavano le regne, cioè i fasci che venivano legati. Una volta mietuto un bel pezzo di campo si raccoglievano le regne per poi formare i covoni in attesa della trebbiatura. Quando si mieteva si sentiva spesso dire: - Mieti sotto, miè! Che significava mietere a fior di terra per ottenere molta paglia che serviva come foraggio per il bestiame durante l’inverno.
Il mietitore più in gamba veniva chiamato “ ru spaccarano” e occupava il centro del campo e aveva alla sua destra tutti gli altri mietitori. (tratto da “Mondragone: scorci di vita passata” di Antonio D’Amato)
Era usanza che il proprietario del fondo mettesse nel campo, il giorno delle Palme, un ramoscello d’ulivo benedetto: con esso il contadino chiedeva al Signore protezione nella difesa del campo dai parassiti, dalle intemperie e dai malefici ma anche di ottenere un raccolto abbondante. Il mietitore che lo trovava aveva diritto a un premio.
La comitiva dei mietitori si fermava per il pranzo consumato all’ombra di alberi frondosi, esso consisteva in pane, pomodori, formaggio, cipolle e vino rosso ma il proprietario del campo non mancava di portare un bel prosciutto da condividere con tutti i mietitori.
Al momento del pranzo poi c’era sempre qualcuno che sapeva suonare la fisarmonica e si intonavano canti popolari e si improvvisavano balli.
Si cantava anche mentre si mieteva perché il canto aiutava a vincere la stanchezza e a dare vigore al corpo. Dopo aver completato la mietitura le persone più povere che non avevano terreni chiedevano il permesso di andare nei campi a spigolare cioè a raccogliere le spighe rimaste e il permesso veniva sempre accordato poiché si viveva in un’era di maggiore solidarietà.
Per completare poi la mietitura i contadini erano soliti bruciare le stoppie dopo Ferragosto ed essendo un’operazione pericolosa appiccavano il fuoco e lo sorvegliavano con molta attenzione. Veniva fatto di sera da più persone per poter affrontare insieme eventuali imprevisti favoriti dal vento.
Dopo alcuni giorni il grano veniva trasportato sulle arie , grandi spazi aperti, in posizione ventilata, per la trebbiatura. Nel paese, ce n’erano diverse, dislocate nei rioni, dove ognuno poteva portare il proprio grano per trebbiare. Si trasportavano le regne con i traini, si caricavano e si scaricavano con le furcate. Venivano stesi per terra grandi teloni su cui venivano adagiate le regne, slacciate. Il modo più antico e semplice di trebbiare il grano fino all’ ‘800 era quello che si eseguiva con il correggiato.
L’operazione consisteva nella battitura del grano per mezzo di un attrezzo, l’auiglio, composto da due bastoni di lunghezze diverse, uniti insieme da una cinghia di cuoio. La parte lunga costituiva il manico, quello corto serviva per percuotere il grano.
I contadini in circolo si accordavano su chi doveva battere il primo colpo, al quale seguiva in senso rotatorio il vicino e così via. Dopo le prime battute lente e incerte , il ritmo cresceva e i colpi diventavano un suono ritmico e armonico scandito dal volteggiare dei bastoni.
Di tanto in tanto il grano veniva rivoltato con la forca fino alla completa trebbiatura, cioè fino a che i chicchi non uscivano dalla spiga.
C’era anche la trebbiatura con il calpestio degli animali. Il grano veniva schiacciato dal mulo o dal cavallo, che veniva prima dissetato e sfamato, poi dotato di paraocchi per ridurre il suo campo visivo, veniva guidato dal contadino secondo una traiettoria circolare tramite una fune legata alla testa; il contadino faceva muovere l’animale in cerchio , il quale schiacciava le spighe liberando i chicchi dal loro involucro e un altro contadino rivoltava il grano con il forcone dopo il passaggio dell’animale.
Dopo aver trebbiato il grano con ciascuno di questi metodi era necessario separare i chicchi dalla paglia a e dalla pula e occorreva farlo in una giornata ventosa . Si stendeva un telo per terra, con una pala si raccoglieva il grano e si metteva nei setacci, che le donne impugnavano verso l’alto, all’altezza della spalla, facendo cadere controvento una piccola quantità alla volta. Il vento portava via la pula e i chicchi cadevano sul telo.
All’inizio del ‘900 comparvero le prime trebbiatrici , qui a Mondragone la macchina fu portata tra gli anni 20/30 e si andava a noleggiare a Sparanise, da dove veniva trasportata da due buoi. Ogni famiglia che aveva mietuto trasportava il grano dove era stata posizionata la trebbiatrice e aspettava il suo turno per trebbiare.
La procedura prevedeva l’impiego di più persone: c’era chi inseriva il grano nella macchina, chi lo incanalava nel carrello, chi lo tagliava per far procedere la macchina senza intoppi, chi si posizionava all’uscita dei bocchettoni con i sacchi per mettere il grano.
Era un lavoro senza sosta, che richiedeva forza e attenzione continua, tra un immenso pulviscolo sparso nell’aria. A fine giornata i volti dei contadini , anche se sporchi , sudati e segnati dalla fatica esprimevano la soddisfazione di aver messo a frutto l’intero lavoro di un’annata.
Intorno agli anni 50/60 c’è stato l’arrivo della mietitrebbiatrice meccanica, che ha eliminato la mietitura manuale, lunga e faticosa, passando così ad una prima meccanizzazione dell’agricoltura.
Quegli immensi campi, quelle intere giornate di duro lavoro venivano così ridimensionate.
Oggi il lavoro lo compie la macchina con un solo operatore, si tratta di una macchina che è in grado di mietere e dare direttamente come risultato finale il grano pulito e pronto.
La mietitura era un lavoro davvero faticoso ma che coinvolgeva tutti ed era anche un’occasione per i giovani di vedere le ragazze, a cui non era concesso di uscire con tanta facilità come oggi, era occasione di grande convivialità attraverso balli, canti e divertimento ma soprattutto essa dava grande soddisfazione ai lavoratori per essere riusciti a procurare alla famiglia il pane, l’alimento principale, simbolo della vita.
Alla mietitura sono legati alcuni detti popolari.
Il primo dice: “ A femmena prena pure sotto a regna trema!”e sta a significare che se una donna è incinta, può tremare anche quando fa molto caldo, nel periodo della mietitura, per condizioni legate non al tempo ma alla gravidanza.
Un altro detto dice: Oi patronu mio
si vuo mete lu rano
E caccià carne e maccaruni
o sinnò lu rano te lu mieti tu
In questo caso sono i braccianti che si rivolgono al padrone, dicendogli di preparare per loro un buon pranzo, se vuole la mietitura del grano. Sapevano bene che il padrone aveva bisogno delle loro braccia per la mietitura e gli intimavano, molto apertamente, di trattarli bene.
Un altro detto afferma: Sciò quarella, sciò! Per far volar via gli uccellini che andavano a beccare i chicchi di grano.
Un altro detto ancora:
Chi va appriess agl’aucieglij che vola
Nun ce port lu ran a la mola!
Sta a significare che chi , invece di mietere, si mette a guardare l’uccello che vola, non riuscirà a portare il grano al mulino.

domenica 22 giugno 2025

LA PROCESSIONE DEL CORPUS DOMINI TRA SACRO E PROFANO


A Mondragone la processione del Corpus Domini è una delle più sentite a livello popolare, in essa si manifesta pubblicamente la fede del popolo di Dio, che celebra la presenza reale del Corpo di Cristo nell’Eucarestia.
Tutto il paese si mobilita per un appuntamento così importante e il popolo mondragonese manifesta, a modo suo, la venerazione, l’amore e il rispetto in questa manifestazione, con ciò che ha di più bello, con i canti , la musica , le preghiere, con le campane che suonano a festa, con le bianche coperte di lino che sventolano ai balconi, con i cesti pieni di petali di fiori ed erbe profumate, che vengono versati in strada al passaggio dell’Ostia Santa, oggi sostituiti dalle infiorate, ancora più belle, preparate con amore e dedizione, anche di notte.
Ogni anno la Confraternita del Giglio, per tradizione, appende in cima allo stendardo le primizie della terra mondragonese: il grappolino d’uva, ancora acerba, le pere piccoline, le melelle di San Giovanni, i ficoni… , in segno di gratitudine e di riconoscenza per questa terra così ricca e feconda.
L’offerta simbolica di quei frutti vuole esprimere un profondo ringraziamento perché è proprio grazie ai frutti della terra, oltre all’aria e all’acqua, che è possibile la nostra vita.
Diversi anni fa, nel giorno del Corpus Domini, una giovane donna, incinta, stava ferma a un lato della strada per assistere al passaggio della processione.
Quando le sfilò davanti agli occhi la Confraternita del Giglio, osservò lo stendardo, che, in cima, aveva i bei frutti.
Quelli erano davvero i primi frutti dell'estate, quando si praticava un'agricoltura rispettosa dell'ambiente e della stagionalità, oggigiorno con l'agricoltura moderna, intensiva e globalizzata, a Natale si possono vedere le fragole e le ciliege...
La suocera, che le stava accanto, se ne accorse e le disse: - Hai visto i frutti ? Ne hai avuto voglia? - No – si scherniva la ragazza – ho solo guardato ma non ho avuto voglia! – ma la suocera, imperterrita, ribatté: - Non ti preoccupare! Ci penso io!
Appena finì la processione, seguì il priore, che, con gli altri membri della confraternita, si recava al Giglio e chiese se poteva avere i frutti per la nuora incinta e glieli portò immediatamente.
Fu un gesto affettuoso di una suocera per la nuora. Quei frutti, un elemento profano del territorio, offerti a Cristo, ora ritornavano ad una mamma in attesa per nutrire una nuova vita, dono sacro e inviolabile.
Quel gesto ci dà il senso di come la vita quotidiana si intrecci di continuo con la dimensione spirituale, con qualcosa che va oltre la quotidianità, in connessione costante con qualcosa di molto più grande.





venerdì 13 giugno 2025

IL FUOCO DI SANT’ANTONIO




IL FUOCO DI SANT’ANTONIO Fino a pochi decenni fa, a Mondragone, c’era la tradizione del fuoco di Sant’Antonio.
La sera del 12 giugno, vigilia della festa di Sant’ Antonio, i vari rioni si illuminavano nel ricordo di un antico rito.
Era un rito collettivo, i vicini di casa raccoglievano rami secchi, sedie rotte, mobili vecchi ecc ed accendevano grandi fuochi in onore del Santo.
Nel Rione San Francesco il fuoco si accendeva all’incrocio tra via Elena, Via Trento, Via Fiumara, Via Padule e Via Giardini.
Tutti si radunavano intorno al fuoco, affascinati da quell’ elemento di purificazione e trasformazione, di connessione con il sacro e il divino, un mondo che va oltre noi e di cui tutti facciamo parte, consapevolmente e inconsapevolmente.
Il rito, con il tempo, è andato scomparendo ma ancora qualcuno lo ripete, a S. Angelo, un rione sempre rispettoso delle tradizioni.
In realtà l’accensione del fuoco è un rito che si faceva e che si fa tutt’oggi in onore di S. Antonio abate, l’anacoreta del deserto, da cui S. Antonio di Padova volle prendere il nome.
Con il passare dei secoli , nell’immaginario collettivo le ritualità si sono confuse e sovrapposte , trasferendosi da un santo all’altro, come spiega l’antropologo Marino Niola.
A volte, tra i due Santi nasce un po’ di confusione specie quando i loro nomi non sono affiancati da necessarie precisazioni che li identificano.
Sant’ Antonio di Padova è un santo medioevale, vissuto nel XII sec. , legato alla predicazione e alla vita religiosa mentre Sant’ Antonio Abate è un eremita egiziano, vissuto nel III sec. , considerato patrono degli animali e legato alla vita monastica.
La leggenda narra che in un tempo antico la Terra era fredda, non esisteva il fuoco e gli uomini non trovavano calore.
Così Sant’Antonio scese nell’Inferno portando con sé un maialino, il quale incominciò a girare e a creare scompiglio, per cui i diavoli chiesero al Santo di riprenderselo.
Il Santo intanto aveva con sé un bastone di ferro, che poggiò sul fuoco infernale e ne assorbì il calore.
Una volta uscito dall’Inferno, il bastone sprigionava scintille di fuoco e così il mondo ebbe il dono del fuoco e la possibilità di scaldarsi.
La foto ritrae l'accensione del fuoco davanti alla chiesa di S. FRANCESCO


giovedì 12 giugno 2025

Troppa grazia Sant’Antonio!



TROPPA GRAZIA, SANT’ANTONIO!!! Tante volte abbiamo sentito o usato questo detto, che si usa ironicamente per esprimere che si è ottenuto più di quanto richiesto, con conseguenze non del tutto positive.
Si tratta di un’espressione, che offre più di una spiegazione.
Dal Messaggero di Sant’Antonio si legge che quando il Santo fu canonizzato, venne letto un elenco infinito di fatti divini o miracoli per cui la folla incominciò a dire scherzosamente: - Troppa grazia, Sant’Antonio!
A Firenze il detto sarebbe legato al vescovo Antonio Pierozzi che, vissuto nella metà del XV sec. , veniva chiamato Antonino perché di struttura esile. Molti Fiorentini si recavano da lui per consigli e conforto e per questo fu soprannominato “Antonino dei consigli”. Un giorno una coppia si recò da lui per chiedere una preghiera di intercessione per avere figli. Poco dopo la coppia ebbe un figlio, poi un secondo, un terzo, un quarto, un quinto. Al sesto figlio i coniugi esclamarono: - Troppa grazia, Sant’Antonio!
L’espressione viene collegata anche ad un mercante, che, essendosi arricchito dopo una vita di stenti , riuscì a comprare un cavallo .Quando si trattò di montare in groppa, non riusciva a prendere lo slancio necessario perché aveva le gambe troppo corte. Dopo alcuni tentativi, si rivolse a Sant’Antonio e invocò la grazia. Poi, mettendo un eccessivo impeto nello sforzo, scavalcò l’animale e cadde dall’altra parte a gambe all’aria ed esclamò: - Troppa grazia Sant’Antonio!

Comunque sia, non si può negare che Sant’Antonio di grazie ne ha fatte davvero tante.



venerdì 6 giugno 2025

LA SPOSINA

Maggio e Giugno, a Mondragone, sono i mesi della raccolta dei fagiolini. A tale proposito vi propongo un racconto, che mi è stato trasmesso dalla mia cara amica VINCENZINA MARTA, con me nella foto, scomparsa, purtroppo, già da qualche anno. LA SPOSINA Una volta il raccolto o meglio la raccolta (perché da noi il termine è di genere femminile) era il momento più atteso dal contadino mondragonese, la principale entrata economica con cui egli faceva fronte alle spese e al sostentamento della famiglia . Se il raccolto andava male si potevano perdere case, terre e andare in rovina ed è successo, purtroppo, a tanti. Negli anni ‘50 una ragazza del rione san Francesco, figlia di un muratore, andò in sposa ad un giovane contadino della zona mare . Quando erano fidanzati i due andavano spesso ad aiutare degli zii anziani e soli, a cui erano morti i figli. Un giorno la ragazza, entrando nella stalla, vide a terra una cucciola di asina , che era nata nella notte, provò ad accarezzarla e l’asinella, tutta contenta, le spingeva la mano come un cane, per farsi accarezzare di nuovo; ne nacque una bella amicizia e ogni giorno la ragazza l’andava a trovare, le dava da mangiare e la coccolava. La zia osservava tutto in silenzio e decise di allevare l’asina e di donargliela in occasione delle nozze. Appena i due giovani si sposarono, due donne, parenti dello sposo, dalle lingue maligne e biforcute, vedendo che la ragazza era alta e magra, incominciarono a malignare su di lei , dicendo che non sarebbe stata in grado di aiutare il marito in campagna poiché un tempo si credeva che per essere persone di buona salute, bisognava essere in carne e per di più poi era figlia di muratore, non di contadini e appena vedevano il marito commentavano: - Oh, poveru compa Ciccio, poveru compa Ciccio! La ragazza, invece, che era buona e giudiziosa con grande volontà di imparare, seguiva sempre il marito e lo aiutava in tutto. Il giovane, all’epoca, lavorava due moggi di vigna alle Due colonne sulla Domitiana, un moggio coltivato a fagiolini e uno a borlotti. Quando arrivò il momento della raccolta, siccome in quella zona arrivavano a maturazione i primi fagiolini e venivano pagati ad un prezzo più alto, i due sposini guadagnarono tanti soldi da comprare il carretto e i vuarnimienti ( gli accessori) per l’asina, quattro botti per l’uva, il maiale, ad agosto, e fecero il compromesso per l’acquisto di un terreno su cui costruire la loro nuova casa. Allora le due parenti incominciarono a chiedersi come avevano fatto e si davano tanto da fare che le critiche arrivarono anche agli sposi. Alle famiglie delle due donne quell’anno la raccolta andò male e non potevano pagare l’affitto delle terre, dovettero andare dagli sposini a chiedere il prestito di cinquemila lire per ognuna ed essi nonostante le critiche di cui erano a conoscenza , glielo fecero volentieri. Dopo due anni la sposina ebbe un bambino e per un po’non andò in campagna ma poi vi ritornò, affidandolo alle cure della nonna; quando diventò più grandicello, lo portava all’asilo sul seggiolino della bicicletta, poi si immetteva sulla Domitiana e raggiungeva il marito in campagna. Un anno il marito si recò in campagna per vedere se erano nati i fagiolini e trovò che la ilata, cioè la gelata, aveva bruciato i piccoli fagiolini appena spuntati, disse alla moglie che quell’anno purtroppo non avrebbero ricavato niente dalla raccolta ma siccome quando si seminano i fagioli, se ne mettono 4 o 5 nella buca del terreno, c’è il seme che nasce prima e quello che nasce dopo e così , passata la gelata, spuntarono gli altri fagiolini, che, zappati, concimati e curati amorevolmente, diedero vita anche quell’anno ad un raccolto abbondante e fruttuoso. Un altro anno, il 5 giugno, morì il papà della sposa proprio quando i fagiolini erano pronti da raccogliere , il marito andò in campagna a controllare e trovò che i ladri avevano rubato i fagioli, scavandoli con tutte le radici; allora, poiché c’era un altro pezzo di terreno dove i fagioli stavano per arrivare a maturazione, si recò da un cugino, chiedendo se, dal momento che essi erano impegnati nel triste evento, glieli poteva andare a raccogliere e il cugino ci andò, poi li andò a vendere e gli portò i soldi fino a casa. Questo avveniva nella società contadina quando c’era più povertà ma più solidarietà tra le persone. Ogni anno la raccolta fruttava loro soldi con cui poter vivere decorosamente e la famiglia progrediva economicamente ed onestamente con il proprio lavoro. Così è stato per la maggior parte dei Mondragonesi, che con i proventi della raccolta hanno costruito la loro posizione economica, partendo anche da zero: hanno comprato, costruito, sposato figli e rimpinguato il conto in banca. Una volta l’agricoltura era l’attività predominante dei Modragonesi ma con il tempo molti dei terreni adibiti all’agricoltura sono stati utilizzati per la costruzione di case, di lidi balneari ecc. e con l’incremento del settore secondario e terziario, molti Mondragonesi sono passati ad altre attività lavorative. Negli ultimi decenni , poi, l’agricoltura ha visto una continua evoluzione delle forme organizzative della produzione, difatti oggi sono le aziende che operano nel settore agricolo: grandi , medie e piccole, a conduzione familiare. La tecnologia ha portato alla meccanizzazione e al ricorso massiccio alla chimica per l’aumento della produttività e della competitività oltre allo sfruttamento dei braccianti, soprattutto extracomunitari. Chi subisce le conseguenze di ciò è il piccolo contadino, proprietario terriero o affittuario, che non può competere con i prezzi competitivi delle aziende e non riesce a vendere a prezzo equo i prodotti del proprio campo e a derivare un reddito adeguato alla propria attività e spesso è costretto a vendere il proprio terreno e a cercare un lavoro più redditizio, a volte costretto anche all’emigrazione.

mercoledì 21 maggio 2025

LA MADONNA NELLA RAGNATELA

  Tanti sono i miracoli e le grazie operate dalla Madonna Incaldana, segni di benevolenza e di protezione a favore del suo popolo.




Uno di questi mi è stato raccontato dalla mia amica Margherita Piglialarmi, riguardante suo padre, Davide Piglialarmi.
Nato nel 1927 nel rione Sant’Angelo, all’incirca verso i 20 anni, si ammalò di malaria.
Bisogna ricordare che Mondragone, in passato, è stata tristemente famosa per la malaria, che si leggeva sul volto degli abitanti sotto forma di un tale indebolimento organico, che era facile da riconoscere anche agli occhi del profano.
Un giorno, mentre era sul letto, incosciente, in preda ad una forte febbre malarica, vide una ragnatela e in essa il quadro della Madonna Incaldana.
Da quel momento è iniziato il suo miglioramento fino alla successiva guarigione.
Ha trovato, poi, la ragnatela, che c’era davvero in un angolo della casa.
Davide, in seguito, si è sposato ed ha avuto cinque figli, ai quali ha raccontato quest’episodio per tutta la vita.
Il ricordo era rimasto indelebile in lui, una prova di come il Divino si manifesta, in certi momenti cruciali della nostra vita per incoraggiarci e sostenerci, in questo caso attraverso il volto della Madre, che traspariva da una ragnatela.
Sempre devoto della Madonna Incaldana, ha fatto anche “ru mast de fest” per i festeggiamenti della nostra Patrona.
Margherita Piglialarmi


domenica 11 maggio 2025

A SCAF DE CASTIEGLJ

  A Mondragone, quando si vuol far intendere che qualcosa è troppo, eccessivamente grande, si fa riferimento alla “scaf de Castieglj”, cioè alla scafa di Castel Volturno.

A Castel Volturno, anticamente il fiume veniva attraversato con la scafa, che era l’unico mezzo di attraversamento.
Si trattava di una zattera o chiatta, ancorata ad una fune, utilizzata, per l’appunto, per attraversare i fiumi da una sponda all’altra, non solo del Volturno.
Era una sorta di “navetta” per così dire, con cui lo scafaiuolo o traghettatore andava e veniva per far passare persone, animali e merci.
Era tanto grande che spesso si traghettavano interi greggi di pecore e altri carichi pesanti.
Occorre ricordare che il Volturno, di cui vediamo l’ultimo tratto a Castel Volturno, nasce in Molise, dai monti delle Mainarde, nella provincia di Isernia, attraversa due province, Caserta e Benevento e sfocia nel mar Tirreno, proprio presso Castel Volturno.
Il primo ponte sul fiume, che attraversa Castel Volturno, fu costruito dai Romani , dall’imperatore Domiziano. Con il tempo crollò a causa delle piene del fiume e il nuovo ponte fu ricostruito nel 1954.
Evidentemente la scafa, questo antico mezzo di trasporto, deve essere rimasta nella memoria popolare proprio per la sua grandezza.
Ecco perché, da noi, quando una persona confida ad un amico fidato una notizia che vuole rimanga segreta, gli raccomanda di non dirlo a nessuno, specialmente a qualcuno di loro conoscenza, che parla troppo, perché “chell ten a vocc quant’è a scaf de Castieglj!!!
Nella foto si può vedere un cavallo con il carretto e alcune persone sulla scafa, pronta per attraversare il fiume.




lunedì 5 maggio 2025

LA DEVOZIONE MARIANA DEL MESE DI MAGGIO

 Una devozione popolare radicata nei secoli è quella di dedicare il mese di Maggio alla Madonna.

E’ un mese in cui la natura è in piena fioritura e ci offre quanto di più bello e dolce, tra fiori e frutti, la primavera ci possa elargire.

Il nome Maggio deriva dal corrispondente mese del calendario romano Maius, dedicato alla divinità latina Maia, dea dell’abbondanza e della fertilità, che rappresentava la grande Madre Terra.
Era un mese, quindi, dedicato alla vita e alla maternità ed è anche per questo motivo che in esso si fa ricorrere la festa della mamma.
E’ un mese in cui si intrecciano bellezza, mitologia e misticismo, che ci ricollegano al divino, al volto di un’altra Madre, quella Celeste, la Beata Vergine Maria.
La Chiesa già dal XVI sec., nel tentativo di dare un significato più trascendente alle usanze pagane legate al mese di maggio, decise di sovrapporvi una pratica cristiana e di dedicare il mese alla Madonna, dedica rinvigorita poi dal dogma dell’Immacolata Concezione del 1854.
Difatti a questo periodo risalgono le prime pratiche devozionali.
In particolare, a Roma, san Filippo Neri insegnava ai giovani a circondare di fiori l’immagine della Madonna, a cantare le sue lodi nelle Litanie, a offrire i Fioretti, piccoli segni di devozione per manifestare un grande amore.
Per Fioretto si intende, infatti, un piccolo fiore, simbolico e spirituale, da offrire alla Madonna ed è una pratica che prevede di sacrificare, rinunciare a qualcosa a cui si tiene molto, in suo onore.
In questo mese, nei borghi e nelle campagne si adornavano di fiori le edicole mariane, anche quelle più isolate che sorgevano agli incroci, al limitare dei campi.
La migliore espressione di devozione che si pratica nel mese di maggio è , senza dubbio, il Rosario, che ha origini tardomedievali, per chiedere benedizioni, benefici, e grazie per noi e per i nostri cari.
Esso prende il nome dalla rosa, il fiore dedicato alla Madonna, e fu diffuso dai Domenicani.
Il Rosario diventò la corona di rose da offrire alla Madonna, una ghirlanda fiorita di preghiere, in cui si concentravano una serie di Ave Maria intercalate da Padre nostro e Gloria al Padre.
I primi Rosari furono costruiti con bacche e semi di fiori , poi con legno di rosa, di olivo fino a materiali più preziosi e più ricchi.
La Corona del Rosario diventò per i Cattolici un oggetto personale che seguiva tutto il corso della vita della persona a cui apparteneva , seguendolo fin nella bara.
Anche qui a Mondragone la devozione mariana era molto sentita , in molte famiglie si allestivano altarini con l’immagine della Madonna , circondata da fiori e ceri, e intorno a quell’immagine si riunivano i vicini di casa per recitare il Rosario.
Per la Messa vespertina si faceva a gara a portare in chiesa i fiori più belli e profumati: rose , calle, gigli, gelsomini, lillà, violacciocche, biancospino, ecc per adornare l’altare della Madonna.
Si recitava il Rosario, a cui seguivano le Litanie cantate. Oltre alla celebrazione della Messa, si leggeva la Meditazione ogni giorno e il Fioretto, come si usa fare tutt’oggi.
I predicatori, soffermandosi ogni sera su un aspetto del culto mariano, decantavano le lodi della Madonna per invitare i fedeli ad un culto più fervente e ad una devozione più sentita.
Il mese di maggio era ed è sempre un’occasione per metterci tutti sotto la protezione di Maria.
“Fare il mese di maggio” voleva dire dire proprio questo, dedicare alla Madonna tutto il mese, recandosi tutte le sere in chiesa, per il Rosario, per la S. Messa ecc.
Lei avrebbe ascoltato sicuramente le suppliche di un figlio tanto devoto che le dedicava con amore un mese intero dell’anno.

mercoledì 16 aprile 2025

Giovedì Santo ( sig.ra Genoveffa Caparco)

 


LA PREGHIERA POPOLARE DEI SEPOLCRI
Te veng a visità, Sepolcru Sant
Ce veng a iurnat da Passion
Ce veng cu nu cor tant afflitt
Da mort e a passion de Gesù Crist.
Sepolcru sant e Sepolcru glorios
Comme si degno e comme si odoros.
Fior de lu suo fior, corp de lu suo corp
Chest è la Croce che ci fussi mort.
Maria a ru Gioverì Sant ieva facenn nu gran piant
Nu gran piant e nu gran dulor
Chest è la Croce di Nostro Signore.
Si c’avess na zitella zita
33 vote lu vuless ricie
A denocchie scupert e terra sagrat
La grazia che cerchi al mio Figliuolo ce sarà dat.

martedì 8 aprile 2025

COMME CUCOZZA CANTA



COMME CUCOZZA CANTA,
PASQUA NUN VENE PE MO’!

Dal suono della zucca, capisco che Pasqua è lontana!
Questo antico detto risale al 1500, al tempo di “Papa Giovinazzo”, un arciprete così denominato, estroso e bizzarro, di Lucugnano, una frazione del Comune di Tricase, in provincia di Lecce.
A quel tempo non c’erano ancora i calendari per ricordarsi delle festività da onorare e si ricorreva ad espedienti pratici per calcolare il tempo.
Era sempre per questo motivo che qui da noi si appendeva la bambola di pezza della Quaresima, che aveva sotto il vestito un’arancia o una patata con sette penne di gallina conficcate, ogni settimana se ne toglieva una proprio per calcolare con esattezza il tempo che mancava per arrivare alla Pasqua.
In alcuni monasteri e sacrestie si usava come calendario un quadro di legno con tanti chiodini, che venivano rimossi giorno per giorno.
Papa Giovinazzo, invece, si era costruito un suo speciale calendario. In una zucca vuota riponeva tanti semi di zucca per quanti erano i giorni dell’anno ed anche tanti semi di fave, che indicavano le festività.
Giorno per giorno toglieva i semi di zucca e di fave per rendersi conto del tempo trascorso e di ciò che gli spettava fare per le celebrazioni in chiesa.
Un anno, verso la metà del 1500, l’arciprete, di domenica, si recò in chiesa per celebrare la Messa ma rimase molto sorpreso nel vedere che il popolo era provvisto di rami di palma e chiedeva la benedizione.
Allora disse: - Piano, figlioli, oggi non è la domenica delle Palme!
Visto, però, che quelli insistevano e, convinto che fossero in errore, si fece portare la zucca e scuotendola per sentirne il rumore dei semi, disse: - Comme cucozza canta, Pasqua nun vene pe mò! E li rimandò a casa senza benedire le palme.
In effetti era lui che si era sbagliato perché la sorella aveva trovato nella sua stanza una scodella con le fave rimosse e, non sapendone il motivo, le aveva rimesse nella zucca.
Papa Giovinazzo, poi, lo venne a sapere e la domenica successiva benedisse le palme e celebrò anche la Pasqua.
Dagli studi antropologici emerge che Papa Giovinazzo è un personaggio della cultura popolare salentina che racchiude in sé la semplicità di don Abbondio e la furbizia di Pulcinella, una figura emblematica e irriverente, figlia della cultura popolare del ‘500.
A lui si attribuiscono storie e aneddoti umoristici anche a sfondo sessuale, che avevano l’obiettivo di farsi beffe di nobili e prelati.
Sulla sua esistenza si hanno molti dubbi, alcuni pensano che non sia realmente esistito e che sia frutto della creatività e della fantasia popolare di quel periodo.
Nel suo Breviario, tra l’altro, si legge: - Io sono Papa Giovinazzo, fate quello che dico, non fate non quello che faccio!
Come abbia fatto questo detto salentino ad arrivare a Mondragone non si sa, certo è che la cultura popolare non ha confini e si diffonde dappertutto.

martedì 1 aprile 2025

RI QUATT BRILLANT

 

“Quatt brillant
giorni quarant”
recita un proverbio della tradizione contadina e sta a significare che se piove il quattro aprile o per I primi quattro giorni di aprile, pioverà per 40 giorni.
Con “quattro brillanti” ci si riferisce proprio ai primi quattro giorni di Aprile, ma, in realtà, la parola “brillanti” è una traduzione errata di Aprilanti perché si dice
"Quattro aprilanti
Giorni quaranta"
I nostri antenati, quando non esistevano le previsioni del tempo, si affidavano alla saggezza popolare per conoscere il tempo con un certo anticipo.
Questo proverbio, in effetti, non ha nessun fondamento scientifico, tuttavia non si può negare che Aprile è un mese imprevedibile.
Anche la scienza ha provato a capire se c’è del vero nella saggezza popolare, per questo alcuni studiosi hanno analizzato l’archivio delle precipitazioni piovose dell’Osservatorio Meteorologico dell’università di Napoli Federico II , funzionante dal 1872 e dall’analisi effettuata risulta che gli anni in cui è piovuto per i primi giorni di Aprile, seguiti da più di 16 giorni piovosi fino al 15 maggio, costituiscono il 70% dei casi.
Il risultato suggerisce che, in fondo, i proverbi tramandati hanno un fondo di verità, se interpretati, non alla lettera, ma in modo più ampio; essi vanno intesi come il risultato di quelle irregolarità climatiche osservate su lunghi periodi.
Casualità o tradizione? Osserviamo quello che succede in questi giorni….
Intanto oggi sembra inverno...



domenica 16 febbraio 2025

CAP DE MIUL

 CAP DE MIUL Qualche volta si sente apostrofare così qualcuno che ha la testa dura.

Si tratta di un’espressione, in realtà, che si riferisce ad una parte del carretto, il mezzo di trasporto più comune di un tempo.
Il miulo era la parte centrale della ruota, costituito da un pezzo cilindrico di legno, che doveva essere il più duro e resistente possibile e non si doveva assolutamente sfaldare perché in esso venivano inseriti gli altri elementi, che permettevano alla ruota di girare.
Fra i tanti modi di dire, con cui ci riferiamo alle persone testarde, non ci dimentichiamo di questo, che viene dalla nostra tradizione.
E’ simpatico ed espressivo e rende anche molto bene il concetto.



SANTA APOLLONIA

 Oggi la Chiesa ricorda Santa Apollonia martire, una Santa poco conosciuta a Mondragone se non attraverso un detto popolare in cui si fa riferimento al suo martirio

SANTA APOLLONIA
E mo c(e) a scicch na mol a santa B(e)llonia!
Così recita un detto mondragonese, riferendosi con esso ad una persona avara, poco disponibile nel dare, una persona da cui si è sicuri di non riuscire a ricavare nulla.
Con questo detto, qui a Mondragone, abbiamo tacciato per tanto tempo la povera santa Bellonia di avarizia.
In realtà la fantomatica santa Bellonia altri non è che santa Apollonia vergine e martire, vissuta nel III sec dC, ad Alessandria d’Egitto.
La storia del martirio della Santa ci è raccontata da Eusebio da Cesarea, il quale riporta un brano della lettera del vescovo Dionigi di Alessandria.
Tra il 249 e il 250, in Alessandria d’Egitto scoppiò una sommossa popolare contro i Cristiani, eccitata da un indovino pagano.
Apollonia, un’anziana donna cristiana, non sposata, che aveva aiutato i Cristiani e fatto opera di apostolato, fu catturata insieme agli altri e venne percossa fino al punto da farle cadere i denti. Secondo la tradizione popolare, i denti le furono divelti con le tenaglie e i soldati infierirono su di lei con particolare crudeltà .
Fu poi preparato un gran fuoco per bruciarla viva se non avesse abiurato.
La Santa, forse per sottrarsi ad ulteriori torture, che avrebbero potuto indebolire la sua volontà, preferì gettarsi tra le fiamme, dove morì, ritenendo senza dubbio che il suicidio non costituisse una colpa in quella situazione.
E’ stata tale la devozione per la santa martire Apollonia che dal Medio Evo in poi si moltiplicarono i suoi denti-reliquie miracolosi, venerati dai fedeli e custoditi nelle chiese dell’Occidente, al punto che papa Pio VI, che era molto rigido su queste forme di culto, fece raccogliere tutti i denti e, deposti in un bauletto, che raggiunse il peso di tre kg, li fece gettare nel Tevere.
Questo episodio ci aiuta a capire quanta impressione, meraviglia e ammirazione suscitò il martirio della Santa nel mondo cristiano per i suoi aspetti singolari.
Santa Apollonia, la cui festa si celebra il 9 febbraio, è invocata in tutti i malanni e dolori dei denti.
Il suo attributo nell’iconografia è una tenaglia che tiene stretto un dente. Pur essendo una donna anziana, nell’iconografia sacra è raffigurata come tutte le sante vergini, in giovane età.



domenica 2 febbraio 2025

FEBBRAR(O)

 FEBBRAR(O)

CURT(O) E AMAR(O)
E’ un detto che esprime, oltre alla brevità anche le difficoltà di un mese in cui si doveva far ricorso alle provviste invernali ormai quasi esaurite.
Bisogna ricordare che un tempo l’economia delle famiglie di ceto medio basso era basata soprattutto sulla produzione agricola ed era fortemente vincolata all’esito dei raccolti, e quando le provviste di grano, di fagioli ecc che erano alla base dell’alimentazione erano quasi esaurite, aumentava la preoccupazione e l’ ansia per le famiglie che stentavano a tirare avanti.
Un altro detto recita: Si Febbraio nun febbrareja , marzo a malepensa! Sta a significare che se a Febbraio non fa molto freddo come ci si aspetterebbe, ci pensa poi Marzo con gli ultimi giorni dell’ inverno a rincarare la dose.
Il mese di Febbraio, però, seppure breve e freddo, è un mese ricco di ricorrenze.
Sin dai primi giorni si rincorrono la Candelora e san Biagio.
La Candelora è una festa cristiana che ricorda la presentazione di Gesù al Tempio ma poiché si avvicina alla fine dell’inverno, al significato religioso della festa si è sovrapposto anche quello della primavera imminente.
C’era poi, nella società contadina, grande venerazione per san Biagio, protettore della gola.
Il 9 febbraio ricorre la festa di sant’ Apollonia martire, a cui è legato un antico detto mondragonese “Mo c(e)’a scicchi na mol a Santa B(e)llonia!
Ma tra tutte, quella che si aspettava maggiormente era il Carnevale, una festa molto amata da grandi e piccoli , un’occasione rara di evasione dalla pesantezza della vita quotidiana, di allegria e di divertimento fine a se stesso ma era anche un’occasione unica di mangiare prelibatezze legate a questa festa e non consentite nel resto dell’anno .




domenica 26 gennaio 2025

STAI A MANGIA’ RENT A CHIES?

 O’, STAI A MANGIA’ RENT A CHIES? ME NE (VU)O’ RA NU POC?

Mi sono sempre chiesta che cosa volesse dire questo semplice modo di dire mondragonese.
In esso emerge dapprima il rimprovero di qualcuno per un comportamento illecito, quello di mangiare in chiesa, e subito dopo il comportamento incoerente e assurdo della stessa persona, che chiede di fare la stessa cosa.
Sembra quasi un ridicolo e banale paradosso. In realtà, questo detto affonda le radici nella Legge dello Specchio, di Carl Jung, il padre della psicologia analitica.
Secondo Jung il mondo può essere paragonato ad uno specchio, in cui ogni persona proietta in modo inconscio e inconsapevole aspetti di se stesso non accettati o riconosciuti.
La proiezione è un meccanismo di difesa attraverso cui attribuiamo agli altri i nostri sentimenti e impulsi inaccettabili.
Una persona insicura, ad esempio, percepisce gli altri come critici e giudicanti.
La proiezione può essere anche positiva quando vediamo negli altri qualità positive che desideriamo avere o che già possediamo ma che non riconosciamo pienamente.
Il mondo, quindi, non è altro che il riflesso di ciò che abbiamo dentro, proiettato sugli altri.
Ci succede spesso di notare qualcosa negli altri che non ci piace, di provare fastidio per un comportamento o per delle parole.
Quello che ci piace del mondo, in realtà, rispecchia aspetti di noi stessi che abbiamo integrato e che ci suscitano emozioni e sensazioni positive.
Al contrario, ciò che del mondo ci dà fastidio riflette una realtà profonda che ci appartiene e che non siamo riusciti ad accettare.
Se vediamo una persona sempre arrabbiata è perché una parte di noi è sempre arrabbiata.
Se ci irrita l’arroganza di una persona potrebbe essere perché stiamo lottando contro la nostra stessa arroganza.
La Legge dello Specchio ci offre una prospettiva potente per la comprensione di noi stessi e delle relazioni interpersonali.
Riconoscendo che ciò che vediamo negli altri riflette aspetti di noi stessi, possiamo avviare un processo di autoconoscenza e crescita personale , possiamo acquisire maggiore consapevolezza e accettazione di chi siamo e migliorare così la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni.
Sembra strano ma pian piano noi scopriamo chi siamo attraverso gli occhi degli altri.
Davvero la saggezza popolare mondragonese è da considerare un ricco patrimonio culturale per noi, se con una semplice e divertente battuta ci fa capire concetti così profondi e universali.