venerdì 25 giugno 2021

RU FIGLIJ DE COMPA FRAUSTIN

Compa Fraustin ( Fraustin credo sia il diminutivo di Fausto) aveva un figlio un po’ ritardato; sia la moglie che il marito tenevano tanto a quel figlio che lo mandarono a studiare in seminario. Passarono molti anni ma il ragazzo non riusciva a prendere la Messa, date le sue ridotte capacità intellettive. Alla fine i suoi superiori per toglierselo di torno, si decisero ad ordinarlo sacerdote. Quando tornò a Mondragone, proprio in mezzo alla piazza, decise di tenere un discorso e incominciò a dire: - Popolo mio, ma quando mai, ma quando mai….! E alzava le braccia al cielo, si infervorava tutto e quelli che si trovavano a passare, si fermavano e dicevano: Uh, ma chiglij è ru figlij de compa Fraustin, verimm c’adda ricje. E lui, di nuovo: - Popolo, popolo mio…..! e la gente si faceva sempre più numerosa e, a bocca aperta, aspettava la continuazione del discorso. Intanto anche compa Fraustin, tornando dalla campagna con la zappa in spalla, passò per la piazza e vedendo tante persone, andò a sentire: - Popolo mio- ripeteva il ragazzo- ma quando mai, ma quando mai! Senza riuscire ad aggiungere altro. Il padre si fece largo tra la folla e preso il figlio per il braccio, disse: - Ma quann mai tu e fatt na cosa bbona? Iammucenn a casa ià , vien a zappà cu me!

Questo racconto proviene dal rione San Nicola e grazie a zia Giovannina Franchino, che l’ha raccontato a sua nipote, Clara Ricciardone, è arrivato fino a noi.
Nessuna descrizione della foto disponibile.
RU FIGLIJ DE COMPA FRAUSTIN 
Compa Fraustin ( Fraustin credo sia il diminutivo di Fausto) aveva un figlio un po’ ritardato; sia la moglie che il marito tenevano tanto a quel figlio che lo mandarono a studiare in seminario. Passarono molti anni ma il ragazzo non riusciva a prendere la Messa, date le sue ridotte capacità intellettive. Alla fine i suoi superiori per toglierselo di torno, si decisero ad ordinarlo sacerdote. Quando tornò a Mondragone, proprio in mezzo alla piazza, decise di tenere un discorso e incominciò a dire: - Popolo mio, ma quando mai, ma quando mai….! E alzava le braccia al cielo, si infervorava tutto e quelli che si trovavano a passare, si fermavano e dicevano: Uh, ma chiglij è ru figlij de compa Fraustin, verimm c’adda ricje. E lui, di nuovo: - Popolo, popolo mio…..! e la gente si faceva sempre più numerosa e, a bocca aperta, aspettava la continuazione del discorso. Intanto anche compa Fraustin, tornando dalla campagna con la zappa in spalla, passò per la piazza e vedendo tante persone, andò a sentire: - Popolo mio- ripeteva il ragazzo- ma quando mai, ma quando mai! Senza riuscire ad aggiungere altro. Il padre si fece largo tra la folla e preso il figlio per il braccio, disse: - Ma quann mai tu e fatt na cosa bbona? Iammucenn a casa ià , vien a zappà cu me! Clara Ricciardone
Nessuna descrizione della foto disponibile.

venerdì 18 giugno 2021

MARITU MIJ, NIENT A ME E NIENT A TE

MARITU MIJ, NIENT A ME E NIENT A TE Spesso dai racconti popolari emerge la violenza che alcuni mariti esercitavano un tempo sulle mogli ma c’è da dire che anche le mogli non scherzavano e cercavano di dare a bere ai mariti tutte le fandonie possibili ma non sempre ci riuscivano.

Una donna, un giorno, decise di utilizzare una bella catena di salsiccia per il pranzo da consumare la sera, quando sarebbe tornato il marito dalla campagna. La tagliò in dieci pezzi e li mise a soffriggere con olio e cipolla; mentre la salsiccia si rosolava, un buon profumino si diffondeva per la casa e la donna, ingolosita, si avvicinò, ne prese un pezzo e lo mangiò; poi, pensando che i pezzi non erano più dieci ma nove, disse: - E va bbuò, facimm cinq a iss e quatt a me! E andò avanti nei lavori di casa ma dopo un po’ non seppe resistere e ne mangiò un altro pezzo e disse:- Eh, mò so ott stuocc, facimm quatt a iss e quatt a me! Dopo un po’ si riavvicinò alla padella e ne mangiò un altro pezzo e disse: - Nu fa nient, facimm quatt a iss e tre a me! Così, un po’ alla volta, mangiò tutta la salsiccia. Quando, di sera, il marito tornò dalla campagna, tutto sporco, stanco e affamato, gli disse:- Sev fatt nu begliu tianiegl cu a saucicci(a) e mo nun ce sta cchiù nient! Sarà stat a jatt! Maritu mij, nient a me e nient a te! Ma al marito la giustificazione non piacque proprio per niente e la picchiò di santa ragione.
Anche questo racconto ci è stato tramandato da zia Giovannina Franchino del rione San Nicola e ringrazio la nipote, Clara Ricciardone, per avermelo riferito.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

martedì 15 giugno 2021

Devozione a S. Antonio


A Mondragone sant’Antonio è stato sempre molto amato tanto da diventare compatrono della città insieme alla Madonna Incaldana.

La popolazione agricola riponeva grande affidamento nell’intercessione del santo per ottenere grazie di ogni tipo.
Alcune preghiere a lui dedicate sono nate dalla devozione popolare e qualcuna è rimasta ancora nella memoria delle persone. Se ne riporta qualcuna:

Sant’Antonio tuttu putent /13 grazie fai ogni mument/ Gesù Crist a te te sente/Sant’Antonio facce cuntent

Sant’Antonio, giglio giocondo, è nominato per tutto il mondo, chi lo tiene per suo avvocato, da sant’Antonio sarà aiutato

Alla processione in onore del Santo si cantava:

Sant’Antoniu vergine e sacrat/ la curona de Gesù la puorti ‘ncap / te l’ha missa la Vergine Maria/ facce la grazia Sant’Antoniu mio

Un’ altra preghiera per ottenere grazie veniva recitata e ripetuta sui grani della Corona , come se fosse un Rosario:

Sant’Antò cammina tu/lengua santa parla tu/ 13 grazie fai al giorno/ fammene una che m’abbisogna.

Quando qualcuno aveva qualche problema chiedeva al Santo di intercedere e in particolare alla “lingua santa” di parlare in suo favore al Signore.
Era tale la devozione al Santo qui a Mondragone che addirittura nel 1928 il sacerdote don Francesco Gravano, chiamato familiarmente da tutti don Ciccio, molto devoto al Santo, nella chiesa di san Francesco fece erigere un trono marmoreo in suo onore proprio dove ora si trova l’altare maggiore, ma nel 1946, al ritorno dei monaci dopo la guerra, non sembrò giusto che il Crocifisso stesse in fondo alla chiesa e il Santo sull’altare maggiore, allora sistemarono il Crocifisso al centro e sant’ Antonio da un lato e san Francesco dall’altro. In seguito spostarono i due santi nelle nicchie laterali definitivamente, dove si trovano attualmente. La statua lignea del Santo, che si venera oggigiorno nella chiesa di San Francesco, pregevole opera dello scultore ortiseiano Luigi Santifaller, è stata realizzata verso la metà del ‘900 ed ha sostituito l’antico simulacro in cartapesta, già venerato dai fedeli. Il Santo, che è quasi sempre raffigurato con il saio, qui da noi è rappresentato con saio, cotta e stola sacerdotale; regge con il braccio destro Gesù Bambino e nella sinistra ha il giglio, simbolo della purezza e trasparenza della vita, rispettando la classica iconografia del Santo.
Che i Mondragonesi venerino molto sant’Antonio lo si capisce da tante cose: il 31 maggio verso mezzogiorno avveniva, fino a pochi anni fa, la cosiddetta “calata di sant’Antonio”: i fedeli, poco prima di mezzogiorno, si radunavano in chiesa e tra canti e preghiere assistevano all’intronizzazione del Santo. La sera, poi, iniziava la Tredicina. Nei giorni della Tredicina, tutt’oggi c’è un andirivieni di fedeli di altre parrocchie che vengono a pregare il Santo. Nel giorno della sua festa, poi, si celebrano le Sante Messe come per la domenica, con la chiesa gremita di fedeli. In questo giorno viene benedetto e distribuito ai fedeli il “pane di Sant’Antonio”, le classiche pagnottelle che ognuno porta a casa , facendone mangiare un pezzetto “per devozione” ai propri familiari, dopo aver recitato la preghiera C’è anche l’usanza di far indossare ai bambini l’abitino francescano per ringraziare il Santo della protezione ricevuta e farla conoscere agli altri. Nel giorno della sua festa, poi, Sant’Antonio viene portato in processione, nelle strade principali di tutti i rioni proprio perché è il Santo di tutti i Mondragonesi. Le famiglie si danno da fare ad innaffiare le strade dove deve passare la processione per rendere così più agevole il cammino delle persone che accompagnano il Santo per tutto il paese. E’ solo alla processione di Sant’Antonio che si sparano i botti in ogni strada e ci si tiene davvero tanto, in ogni rione i devoti vanno di casa in casa a chiedere i soldi per tale scopo. E così, tra gli spari assordanti, le coperte preziose che sventolano ai balconi, la banda che suona, la recita delle decine del Rosario e i canti dei devoti, il Santo passa e benedice ogni punto della città ed è in questo modo che il popolo mondragonese esprime la devozione autentica e il sincero amore per il Santo dei miracoli, a cui tutti si rivolgono con fiducia e speranza.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

lunedì 14 giugno 2021

IL RESPONSORIO DI SANT’ANTONIO

 

Sant’Antonio è famoso anche come il Santo che aiuta a ritrovare le cose perdute. Questa particolare venerazione ha sicuramente origini popolari ma è anche da ricercare nel Responsorio latino , la preghiera più famosa recitata o cantata in suo onore. Secondo la tradizione popolare se, recitando il Responsorio, dall’inizio alla fine, non si verifica alcun intoppo, l’esito per il quale si prega sarebbe favorevole e viceversa. Di certo la preghiera non va considerata come una formula magica, bensì va recitata con umiltà e senza alcuna pretesa assoluta di ottenere qualcosa. Eccone la versione in italiano:

“Se chiedi i miracoli, eccoli: la morte, l’errore, le disgrazie, il demonio e la lebbra vengono messi in fuga; gli ammalati si alzano sanati, il mare si calma, i ceppi si aprono. Giovani e vecchi pregano e ritrovano nuovamente le membra e tutto ciò che hanno perduto. I pericoli periscono, cessa la necessità; parlino tutti coloro che l’hanno sperimentato. Lo dicano i Padovani.”
A Mondragone , fino a pochi anni fa, c’era l’usanza, quando una donna doveva partorire o anche dopo aver partorito che una persona di famiglia si recasse nella chiesa di san Francesco e facesse suonare il Responsorio a sant’Antonio: 13 rintocchi di campana e la recita del responsorio fatta da un frate della chiesa. E’ una tradizione portata sicuramente a Mondragone dai monaci e molto sentita dal popolo ed è un peccato che sia andata perduta. Con essa si intendeva mettere la mamma e il bambino sotto la protezione del Santo in un momento così difficile e delicato come quello del parto.
Si sa che sant’Antonio ha sempre avuto una particolare predilezione per i bambini. Nella sua biografia si raccontano tanti miracoli compiuti in loro favore ma la tradizione di porre i bambini fin dalla nascita sotto la sua protezione è nata da un episodio della sua vita.
Sant’Antonio si trovava ad Assisi per intervenire al Capitolo Generale. In quei giorni una devota donna, temendo di morire per il suo parto pericoloso, mandò a chiamare qualche frate affinché andasse a visitarla e a confortarla. Fu scelto Antonio, che in quel consesso godeva di fama di santità e di prodigiose operazioni. Egli andò e ispiratole coraggio, le disse che avrebbe partorito un figlio maschio, il quale si sarebbe vestito da frate minore, sarebbe passato tra gli Infedeli a cogliere la palma del martirio, della quale egli non era stato degno. La profezia si avverò ai tempi debiti. La donna partorì un maschio, che poi si fece frate con il nome di Filippo. A 50 anni fu mandato in Oriente insieme ad altri compagni. Poiché incoraggiava i compagni a resistere e a non rinnegare la propria fede, il sultano gli fece tagliare la lingua e le dita e lo fece scorticare vivo, condannando a morte anche i compagni. I loro corpi benché insepolti per molto tempo anziché fetore, emanavano una soavissima fragranza. (tratto da “ Vita di S. Antonio di Padova taumaturgo portoghese” dell’abate Emmanuele de Azevedo libro I cap. XXVI)

Nessuna descrizione della foto disponibile.

PROCESSIONE DEL CORPUS DOMINI

LA PROCESSIONE DEL CORPUS DOMINI: TRA FEDE, SIMBOLOGIA E TRADIZIONE

Quando viene la festa del Corpus Domini, a Mondragone si fa una delle processioni più belle e sentite, la più solenne in assoluto, a cui partecipa tutta la comunità. Si tratta di una festività ufficiale della Chiesa, che ha lo scopo di onorare degnamente il sacramento dell’Eucarestia. Il sacerdote porta in processione il sacro “simbolo”, un’Ostia consacrata, racchiusa in un ostensorio, esposta alla pubblica adorazione, sotto un baldacchino finemente ricamato. E’ Gesù che passa per le strade, proprio Lui vivo e vero, presente nel Santissimo Sacramento ed è un paese intero che si mobilita per onorarLo e accompagnarLo sotto le specie dell’Ostia Santa. Una volta questa festa “di precetto” veniva celebrata il giovedì della seconda settimana dopo la Pentecoste , 60 giorni dopo la Pasqua, il che corrisponde al giorno dopo la Santissima Trinità. Nel 1977, in Italia, la Conferenza Episcopale Italiana decise di spostare i festeggiamenti alla seconda domenica dopo la Pentecoste. Qui a Mondragone si faceva la processione il giovedì mattina e si ripeteva il giovedì seguente, di pomeriggio, nella cosiddetta Ottava del Corpus Domini. Allora come oggi si allestivano lungo il tragitto gli altarini, molto più numerosi un tempo rispetto ad oggi, ovunque la devozione popolare lo riteneva opportuno e dove il sacerdote poggiava l’ostensorio e faceva sostare il Santissimo per pochi minuti e impartiva la benedizione; oggi gli altarini si allestiscono solo in prossimità delle chiese e uno alle Crocelle. Si tratta di altarini realizzati dalla gente del rione con coperte e lenzuoli di lino, fiori e ceri. Quando il Santissimo sta per arrivare in prossimità della chiesa, le campane suonano a festa, il sacerdote impartisce le benedizione; poi, tra canti e preghiere il corteo riprende il cammino. Al passaggio del Santissimo Sacramento è tradizione far sventolare dai balconi le più belle coperte e tovaglie di lino, finemente ricamate, i pezzi più pregiati del corredo della sposa di casa e vengono lanciati dall’alto petali di fiori. Come vuole la tradizione, per ogni strada dove deve passare il Santissimo, le donne preparano cesti di vimini colmi di petali di fiori colorati, misti ad erbe profumate, quali la mortella, la menta , la ruta, raccolta sulla nostra montagna, l’erba cedrina e li spargono festosamente a terra, formando un tappeto naturale e profumato, sul quale può passare degnamente il Corpo del Signore. Negli ultimi anni viene preparata l’Infiorata, molto bella anch’essa, con l’utilizzo di fiori e tappeti di segatura colorata con la raffigurazione di immagini sacre. Fortemente simbolico è anche lo stendardo della Congrega del Giglio, in cima al quale vengono appese le primizie, i frutti della terra mondragonese, non ancora maturi ma offerti in segno di gratitudine e di ringraziamento: il grappolino d’uva ancora acerba , che sta appena per colorire, le pesche, i primi ficoni, le pere durette e piccoline, le melelle di san Giovanni. Alla processione partecipano, nell’ordine: la banda, l’Azione Cattolica, i Movimenti, le due Congreghe del Carmine e del Giglio, le parrocchie, ognuna con il proprio stendardo, i sacerdoti, che a turno portano l’Ostia Santa, il sindaco, attorniato dai consiglieri comunali, carabinieri e guardie municipali, dietro seguono i fedeli. E’ in questo modo che la processione si snoda per le strade del paese e il popolo mondragonese, adora e rende omaggio al mistero di Cristo che ci ha amato di un amore tanto grande da donarci se stesso in cibo. La processione, poi, si conclude nella piazza principale, piazza Umberto, dove da un altare posto in alto su un palco il sacerdote impartisce la benedizione finale.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

domenica 13 giugno 2021

L’ORAZIONE DI SANT’ANTONIO


Ai Santi sono legati molti detti e proverbi, devozioni e orazioni popolari. Erano proprio le ricorrenze religiose e i grandi lavori dell’agricoltura come la mietitura e la vendemmia, che scandivano il tempo una volta.
A Mondragone si recitava, in passato, un’orazione, riferita a un episodio della vita di S. Antonio, in cui si racconta che egli riuscì a salvare suo padre, falsamente accusato. Mentre Antonio si trovava a Padova, nella città di Lisbona un giovane aveva ucciso, di notte, un suo nemico e lo aveva seppellito nel giardino del padre di Antonio. Ritrovato il cadavere, venne accusato il padrone del giardino. Costui cercò di dimostrare la sua innocenza ma non ci riuscì. Il figlio, saputo ciò, mentre predicava a Padova, con il dono della bilocazione si ritrovò a Lisbona e si presentò al giudice, dichiarando l’innocenza del genitore, ma questi non volle credergli. Il Santo, allora, fece portare in tribunale il cadavere dell’ucciso e, tra lo spavento dei presenti, lo richiamò in vita e gli domandò: - E’ stato mio padre a ucciderti? Il risuscitato, mettendosi a sedere sul lettino, rispose: - No, non è stato tuo padre! e ricadde supino, ritornando cadavere. Allora il giudice, convinto dell’innocenza dell’uomo, lo lasciò andare.
A Mondragone l’aneddoto così si recitava:
- Sant’Antonio predicava/ jeva gl’angiulo e ri parlava:
“E vuie state a predicà e a vostro padre ru stanno a ‘mpiccà”/ Sant’Antonio fa riverenza/ a ru popolo cerca licenza/pe putersi arripusà/ ‘nsino a Lisbona aveva arrivà/ Poi si mise a camminare/ La giustizia fa fermà/ Taci taci la giustizia! Pecché stu viecchio adda ì a la morte?
Son nseminate le testimonie/Chistu viecchio un uomo ha ammazzato/Questo vecchio s’adda ‘mpiccà/ “E nuie fede a Dio tenimmo/cu ru muorto ve porto a parlà”/Santo Padre, vuie che dite/ son tre giorni che è seppellito/ In nome di Gesù Sacramentato (da) morte ti sia risuscitato/ parla e dì la verità/si stu viecchio t’a ammazzato/ Chistu viecchiu nun è stato / ma chi morte a me m’a rato/ Dio ru pozza perdunà.


Grazie a Clara Ricciardone e alla sua cara nonna che ci hanno tramandato questa bella orazione popolare
Nessuna descrizione della foto disponibile.

sabato 12 giugno 2021

VOTT PAN A CHI TE MEN PRET!

 VOTT PAN A CHI TE MEN PRET!


E’ un detto che deriva da un’antica fiaba mondragonese e che equivale a dire: - Fa’ il bene a chi ti fa il male! Facile a dirsi ma difficile a farsi perché ricevere il male, giustamente o ingiustamente, ci fa soffrire ma se prendiamo la decisione di rispondere al male con il bene, non perché l’altra persona lo meriti ma proprio per una decisione presa e non più cambiata di rimanere nel bene, che è l’unica strada giusta da percorrere, succederà che prima o poi l’altra persona capirà e forse la smetterà e comincerà a comportarsi diversamente ed avverranno quei piccoli “miracoli” per così dire “umani” visto siamo noi stessi a farli e che ci permetteranno di sbloccare situazioni, saltare ostacoli, che parevano insormontabili.

Il problema è capire come si fa a voler bene a chi ci fa il male: probabilmente cominciando a pensare che chi fa il male è una persona che soffre perché è chiaro che chi sta bene, in pace con se stesso e con gli altri, non pensa a fare il male ma a tutt’altro. Magari è una persona con tanti problemi irrisolti, non accolti e riconosciuti o che non vuole proprio riconoscere, che nega anche a se stesso e crede , con il suo modo di agire , di limitare o compensare in qualche modo quei problemi. Dovremmo provar compassione per lui/lei ma non perché noi stiamo bene e lui sta male, bensì secondo il significato originario del termine , che deriva dal latino “cum patior” cioè “patire, soffrire con” e desiderare di alleviare il suo dolore, ma riconoscere anche che lui soffre come noi, visto che la sofferenza è comune a tutti, perché insita nell’umana natura e in questo modo dalla compassione può scaturire il perdono.
Se poi la persona persiste ottusamente nel suo comportamento, di sicuro, ci dispiacerà ma non per questo devieremo dalla decisione presa e portata avanti con molta fermezza di rispondere sempre con il bene perché sapere di stare nel bene ci porta ad essere in pace e tranquilli, il sapere di stare sulla strada giusta, unica e sicura dell’amore , che non fa danni e non è mai sbagliata. C’è chi ci mette continuamente alla prova per farci passare dall’altra parte ma non ci riuscirà, se noi non lo vogliamo.

giovedì 10 giugno 2021

RU SETACCI(O) DA CUMMAR

RU SETACCI(O) DA CUMMAR 

Un marito e una moglie andarono a lavorare in campagna. Ad una certa ora la moglie disse: - Aggia ij’ nu poc a cas pcché comma Maria ma ritt che se vulev fa prestà nu poc ru setacci(o), nun s’avessa piglià coller, se po crer ch io nun ce ru voglio ra! – No, va’ va’, nun te preoccupà! Rispose il marito. Il giorno dopo alla stessa ora si ricordò di un’altra comare che le aveva chiesto il setaccio: - Vac e veng- disse al marito. Ogni giorno si ripeteva la stessa storia per cui il marito si insospettì e decise di seguirla. La moglie andò a casa, tagliò sette fette di pane abbondanti, le sistemò a strati in una zuppiera, irrorandole con del buon brodo caldo e cospargendo il tutto con del pecorino grattugiato; appena ebbe finito di preparare la zuppa, si allontanò per riporre la pentola del brodo e il marito, uscito dal nascondiglio da cui osservava tutto, tagliò un’altra fetta di pane e l’aggiunse alla zuppa. La moglie tornò, si sedette e incominciò a mangiare di buon appetito. Quando arrivò alla settima fetta, guardando nel piatto vide che c’era rimasto l’ultimo strato di pane e non si capacitava, allora disse: - Ma comm, m’aggiu semp mangiat l sett panell 'nzupp e mo ce superat ru suol de sott? Ma io nun ce a faccio cchiù, so sazia! Allora il marito uscì dal nascondiglio e disse: - Che è, nun ce a fai cchiù? E riavul schiatt(a)t! Chiss sev ru setaccio da cummare?!!!
Questo racconto ci fa riflettere non solo sull’astuzia con cui certe mogli raggiravano i mariti in passato ma è interessante anche dal punto di vista storico-linguistico, in quanto attraverso di esso e di altri ci possiamo rendere conto dell’ evoluzione del nostro dialetto, difatti quelle che per noi sono “ l sett fell d pan” mai ci saremmo sognati di poterle chiamare "l sett panell 'nzupp”.
Clara Ricciardone
Nessuna descrizione della foto disponibile.

martedì 8 giugno 2021

NUN MANC MAI CHE TESS!

 NUN MANC MAI CHE TESS! (Non manca mai il da fare!)

A me, questo detto, devo dire, mi calza proprio a pennello perché io il da fare se non c’è, me lo invento e me lo creo di continuo, visto che mi piace fare di tutto e, ora mi appassiono per una cosa ora per un’altra, sicché inizio tanti progetti che non sempre riesco a portare a termine e, a volte, vado in tilt, come si dice, e allora chi mi sta intorno mi dice di darmi una calmata e di riposarmi, visto che non ho neanche tanta forza ed è vero, considerando gli acciacchi di vecchia data a cui si aggiungono quelli sopraggiunti con la vecchiaia, che certe volte mi costringono ad una forzata inattività e allora sì che do ragione a chi mi consiglia per il mio bene. E pensare che a chi mi vede e non mi conosce posso sembrare un’acqua cheta, una che sta più da là che da qua. Ma basta che mi ripiglio un po’ e incomincio a scalpitare come un cavallo e a mettere in cantiere questo e quello e mi ritrovo a pensare che poi, tutto sommato, non c’è mica bisogno di riposare tanto perché poi quando andrò al cimitero avrò tanto tempo per riposarmi. E allora ricomincio a darmi da fare perché , in fondo, di tempo non ce n’è mica poi tanto e io mica ho sette vite come i gatti per realizzare tutti i miei progetti….
Tra una cosa e l’altra, poi, mi siedo al computer per scrivere i racconti della nostra cultura popolare , anche quella mi piace tanto perché la trovo genuina e vera come vere sono le storie della vita che racconta.









lunedì 7 giugno 2021

PUOZZI SCULA’

 PUOZZI SCULA’

Ho sentito diverse volte quest’espressione nel nostro dialetto e pur intuendone il senso negativo, non ne avevo mai compreso esattamente il significato fino a quando, anni fa, trovandomi a Ischia, andai con mia figlia e mia nipote a visitare il Castello Aragonese, che sorge su un isolotto di roccia ed è collegato all’isola stessa da un ponte di pietra. Il Castello è molto grande e ci vogliono due o tre ore per visitarlo perché c’è tanto da vedere, in passato costituiva una vera e propria cittadella. D’estate, per la festa di sant’Anna, di sera, viene tutto illuminato per simulare l’incendio del castello e contemporaneamente, in mare, sfilano le barche allegoriche, di cui verrà premiata la più bella; segue, infine uno straordinario spettacolo di fuochi d’artificio. Il Castello fu costruito nel 474 a. C. ed è appartenuto ai diversi popoli dominatori che si sono succeduti. Fu sotto gli Angioini che si iniziò a costruire il ponte per collegare il Castello al resto dell’isola. Sul Castello vi sono diverse chiese e cattedrali. Ad un certo punto, durante la visita, siamo arrivate a visitare la chiesa dell’Immacolata, a cui era annesso il convento delle Clarisse. Sotto la chiesa si trovava il cimitero delle monache o “Putridarium”, ancora oggi visitabile, dove, per mancanza di spazio, i cadaveri delle monache, anziché essere interrati, venivano lasciati fino a decomporsi. Si componeva di una serie di sedili in pietra, sui quali venivano posti, in posizione seduta, i corpi delle defunte. Ogni sedile era dotato di un ampio foro, un colatoio, nel quale potevano defluire i liquidi corporei e i tessuti in decomposizione. Il processo ovviamente non era veloce e si concludeva solo quando rimanevano le ossa delle defunte, che potevano essere pulite e raccolte in un ossario. Le monache viventi dovevano recarsi ogni giorno a visitare le consorelle in decomposizione per pregare e meditare sulla caducità della vita terrena e sulla morte.
Immagino il supplizio e la tortura a cui erano sottoposte le povere suore, che dovevano adempiere al proprio dovere.
Quest’usanza scomparve del tutto verso gli inizi del 1900. Il cimitero delle Clarisse fu, però, fatto chiudere già nel 1810 assieme al convento e ad altre strutture religiose, in seguito ad un decreto emanato da Gioacchino Murat, re di Napoli, sotto Napoleone, volto a sopprimere gli ordini religiosi e a impadronirsi delle loro ingenti ricchezze.
Comunque, tornando all’espressione, mi chiedo se quelli che la usano si rendono conto di quello che dicono, forse se ne capissero il vero significato, non la userebbero più.



CACCIA E PESCA: N’APPRUMETT!

 CACCIA E PESCA: N’APPRUMETT!


Si dice così a Mondragone per ricordare ai cacciatori e ai pescatori che non possono promettere niente di ciò che cacceranno o pescheranno, prima di averlo preso davvero.
Un cacciatore, un giorno, riuscì a catturare una lepre, la portò a casa e la nascose in una stalla adiacente alla casa, con le zampette legate, senza dir niente alla moglie. Il giorno dopo, per vantarsi con lei di essere un cacciatore infallibile, si mise il fucile in spalla e disse: - Mò vac a caccia, staser ce mangiamm a lepr a cacciator! La moglie rispose:- Aé, è na parol! Ma comm fai a ess accussì sicur, si n’acchiapp prim? Ma nun se ricje “Caccia e pesca n‘apprumett”? E lui: - No no, so sicur, me lu sent proprio! E se ne andò. Quando tornò, si recò nella stalla per sparare alla lepre, per dimostrare alla moglie che l’ aveva catturata, andando a caccia; le slegò una zampina per farla stare ritta in piedi e l’apostrofò,dicendo: - LEPR LE’! ma la lepre, appena si rimise in equilibrio, cominciò a saltellare sulle zampette posteriori, facendo alzare una nuvola di polvere che andò in faccia all’uomo, impedendogli di prendere la mira. E in un baleno scappò, dando una bella lezione all’ "infallibile" cacciatore e confermando la veridicità del detto.

Grazie alla Signora Clara Ricciardone

sabato 5 giugno 2021

RI CCHIU’ BEGLI

"RI CCHIU’ BEGLI" Una volta una mamma pavone doveva partire per un lungo viaggio e non potendo portare con sé i propri piccoli, voleva affidarli a qualcuno. Pensò e ripensò e alla fine si rivolse alla civetta, dicendo: - Cummà, ij aggià partì e nun sacci(o) a chi aggia lassà ri figli miej, facitem stu piacer, facit(e)ri sta cu ri figli vuost, accussì chigl s crescen ansiem! La civetta rispose: - Cummà, ij ru piacer v ru vogli fa, ma sapit, "si po lu mangià nun me bast, a chi aggia fa mangià? E il pavone, sapendo che i suoi figli erano di gran lunga più belli di quelli della comare, rispose:- E vuije facit mangià a chigl che v par(e)n cchiù begl(i)! Si misero così d’accordo e il pavone partì. Quando tornò a riprendere i piccoli, la civetta le disse: - Cummà, m rispiace ma ri figli vuost so muort tutti quant, sapit, chell a fatt assaj fridd e lu mangià ch’aggiu truvat pa campagn er tropp poc e ij aggiu fatt comm ate ritt vuje, aggiu fatt mangià a chigl che me pareven cchiù beglj, a ri figli miej!
Anche questo antico racconto mondragonese ci fornisce uno spunto di riflessione, questa volta sulla bellezza. Nessuno ha mai dato una definizione della bellezza valida per tutti perché, come si sa, la percezione della bellezza è soggettiva e ciò che è bello per uno non necessariamente deve esserlo per gli altri. Non c’è dubbio che vediamo belle le persone che amiamo e forse è proprio questo che riesce a farci cogliere in loro quella bellezza che gli altri non riescono a vedere e quindi, come afferma un famoso aforisma di Oscar Wilde “ la bellezza sta negli occhi di chi guarda”.
Grazie a Clara Ricciardone , fonte inesauribile di racconti mondragonesi


venerdì 4 giugno 2021

LE SCORZE DEI LUPINI

LE SCORZE DEI LUPINI Questa storia, da sempre raccontata nel rione S. Francesco, offre un insegnamento sempre valido: accontentarsi di ciò che si ha per non rischiare di essere degli eterni insoddisfatti e di crearsi falsi miraggi.

Un giovane, che apparteneva ad una famiglia piuttosto povera, era sempre scontento di quello che aveva e che i suoi gli mettevano a disposizione e imprecava spesso contro la sorte che non lo aveva fatto nascere ricco.
Nella civiltà contadina solitamente tutto si imputava alla sorte o fortuna, “la ciorta”, come veniva chiamata: le malattie, la povertà, le disgrazie ecc e questo comportava un atteggiamento diffuso di rassegnazione e di vittimismo.
Un giorno mentre camminava in mezzo alla fiera ( la fiera di San Bartolomeo) che un tempo si svolgeva a Corso Umberto ossia “mmiez a ru Gigli(o), vide la bancarella del “torronaro” che non mancava mai per l’occasione e gli venne voglia di comprare qualcosa ma aveva solo un soldo cioè 5 centesimi e per comprare il torrone ci volevano almeno 2 soldi . Allora si accontentò di comprare un cartoccio di lupini e se li andava mangiando, camminando senza fretta, gettando le bucce all’indietro e borbottando contro la malasorte e diceva: - Gl’ati se mangiano lu turron e io m’aggia accuntentà de ri lupin! Girandosi si accorse che un ragazzo dietro di lui raccoglieva le bucce e le mangiava, tutto contento. Riflettendoci, pensò: - Uh, Maronn, e ij che me lamentav de ri lupin, stu vuaglion se mangia le scorz e è pur cuntient! Nun me aggia lamentà cchiù, anz voglio ringrazia ru Patatern pe chell che me ra! Se ricie buon 'Nu chiagn trist che ven peggio!

Nessuna descrizione della foto disponibile.

mercoledì 2 giugno 2021

I RITI DELL’ASCENSIONE

 I RITI DELL’ASCENSIONE: L’ ACQUA DI ROSE E IL RISO CON IL LATTE

L’ Ascensione è una solennità che cade 40 giorni dopo Pasqua e riveste notevole importanza nella liturgia cattolica perché segna la fine del soggiorno terreno di Gesù, il quale dopo la sua Passione, Morte e Resurrezione, si mostrò agli Apostoli e alle donne per un periodo di 40 giorni; poi ascese al cielo, concludendo la sua permanenza terrena.
Un tempo, nell’antica società contadina, la gente conferiva a questo giorno una particolare “sacralità” e come in tutti i giorni festivi non era consentito fare lavori servili. A testimonianza di ciò c’è un proverbio abruzzese che assicura che in tale giorno “neanche gli uccelli capovolgono l’ uovo” ; in tale giorno, cioè, non lavorano neanche gli uccelli.
Nel momento in cui Gesù ascendeva al cielo, distaccandosi dalla terra, si avvertiva o meglio si “percepiva” maggiormente quel misterioso collegamento delle forze celesti con la Terra, quel rapporto di congiunzione e di comunicazione tra cielo e
terra; quella porta tra uomo e Dio si era definitivamente aperta già prima con l’incarnazione, la vita terrena , la morte e la Resurrezione di Gesù.
La festa cadeva proprio a primavera inoltrata, in un periodo di grande floridezza della natura, e l’acqua e il latte diventarono, nel tempo, simboli di rigenerazione e purificazione.
Secondo la tradizione, in molte zone del Sud Italia e anche a Mondragone, la sera della vigilia dell’Ascensione, veniva lasciato un bacile colmo d’acqua con tanti petali di rose e foglie verdi profumate su un balcone o sul davanzale della finestra: si credeva che Gesù, alla mezzanotte, salendo al cielo accompagnato dagli Angeli, benedicesse quelle acque. Al mattino tutti i componenti della famiglia venivano invitati a lavare il viso in quell’acqua fresca e profumata, in segno di purificazione, un gesto simbolico che nonne e mamme ci hanno tramandato nel tempo.
Era quasi il preannuncio della Pentecoste che si festeggia una settimana dopo per ricordare la discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo sugli Apostoli e sulla Madonna, sotto forma di lingue di fuoco. Quest’ultimo particolare ha fatto nascere l’uso, in alcuni luoghi, di far piovere dall’alto petali di rose, ragione per cui questa solennità è anche detta Pasqua rosata o Pasqua delle rose.
L’Ascensione è anche il giorno in cui, a Mondragone ma anche in tanti altri paesi del Meridione, come nel Molise e nel Beneventano si mangia, per devozione, il riso con il latte, con zucchero e cannella.
Anticamente poiché nel giorno dell’Ascensione agli uomini non era consentito lavorare, in Basilicata, nell’Irpinia e nel Cilento, il latte non veniva lavorato e i pastori per devozione lo distribuivano gratis ai compaesani al fine di dare la possibilità a tutti di cucinare i cosiddetti “tagliolini dell’Ascensione”, con zucchero e cannella, come il nostro riso. C’era la credenza popolare che tenerne per sé anche solo una goccia poteva causare la sterilità delle bestie.
Ancora oggi la tradizione continua in quelle zone, solo che il latte di capra di una volta è stato sostituito da quello vaccino perché più facilmente reperibile. Probabilmente anche il latte, che è un alimento fondamentale per lo sviluppo e la salute del bambino, ma anche rilevante nella dieta dell’adulto, con il suo candore, in occasione dell’Ascensione, veniva visto simbolicamente come elemento purificatore per la crescita spirituale della persona.