martedì 30 novembre 2021

A FURTUNA MIJA

 A FURTUNA MIJA

I racconti popolari mondragonesi quasi sempre avevano lo scopo di intrattenere divertendo, e cogliendo il lato ridicolo delle situazioni intendevano suscitare ilarità e buonumore, anche se nascondevano sempre qualche insegnamento.

Una donna si lamentava spesso perché notava che agli altri andava tutto bene mentre a lei non c’era niente che andasse per il verso giusto e quando le capitava qualcosa di negativo, era solita ripetere: - Eh, a furtuna mija, e addò sta chella furtuna mija , ma addò sta? Un giorno, esasperata, se ne andò in un bosco e incominciò a chiamare a gran voce: -Furtuna, furtuna mija! La Fortuna, che nella mitologia viene personificata come la dea bendata, anche in questo racconto era una donna, e guarda caso, in quel momento stava espletando un impellente bisogno fisiologico. Tutta infastidita, si sbrigò alla bell’e meglio e apparve alla donna come in una visione, dicendo: - E che ca…, proprio mò aiva venì? Che vuò? E la donna: - Ah, sit vuje a Furtuna mija? No, sapit, io so venut ccà proprio pe me sfugà, io vec agl’at, e chi fa chest e chi fa chell e ri va semp tuttu buon e a me nun me ne va mai nisciuna bbona! E parlava e parlava e si lamentava di questo e quello, cercando di spiegare le sue ragioni. Alla fine se ne andò. La Fortuna, passandosi una mano sulla coscienza, pensò che dopotutto la donna aveva ragione e per rimediare preparò per lei una borsa piena di monete d’oro e per fargliela trovare la posizionò in maniera ben visibile proprio sul lato della strada che stava percorrendo. La donna, intanto, mentre se ne andava pensava: - Chisà comme fann ri ricat a camminà?! Chiuse gli occhi e procedeva ad occhi chiusi per cercare di rendersene conto. Così passò proprio vicino alla borsa senza vederla e non si accorse di ciò che la Fortuna aveva preparato per lei.
Probabilmente così facciamo anche noi quando ci capita qualcosa di bello, una “fortuna” per così dire, ma siamo talmente concentrati su altro, magari ad aspettare chissà cosa che neanche ci accorgiamo delle cose belle che ci capitano ogni giorno. Se poi consideriamo fortuna solo vincere all’ Enalotto o qualcos’altro di molto importante o di valore per noi e ci mettiamo in una situazione di perenne aspettativa, non riusciremo mai a godere del presente, dell’ “adesso”, che è l’unico momento che veramente conta perché il passato è passato e non c’è più e il futuro non sappiamo come sarà e neanche se ci saremo.
Certo, sappiamo bene che non tutto è in nostro potere e a volte le circostanze possono essere davvero sfavorevoli per chiunque e allora parliamo di sfortuna ma, a pensarci bene, ci sono sempre dei margini d’intervento ed anche in una situazione triste o dolorosa si può trovare sempre il lato positivo delle cose, anzi a volte una sfortuna si può rivelare,con il tempo, una fortuna e viceversa e quello che la cosiddetta sfortuna ci fa perdere da una parte, la vita, a volte, ce lo fa ritrovare dall’altra, in altri momenti, in altre circostanze e situazioni e anche con gli interessi.
Dovremmo, quindi, saper cogliere le occasioni che la vita ci offre ma anche saperci adattare alle circostanze, accogliendo ciò che si presenta, il che non è sempre facile. Ma, d’altra parte, quando mai la vita è stata facile? Non è lo per nessuno eppure è sempre un dono bello e meraviglioso e, fortuna o sfortuna, vale sempre la pena di essere vissuta. Grazie alla carissima Clara Ricciardone e alla sua mamma, Enzina Papa, cugina di mio marito



LA RACCOLTA DELLE OLIVE

La raccolta delle olive è un vero e proprio rituale che si ripete ogni anno tra la fine di ottobre e novembre. Dalla loro macinazione al frantoio si ottiene l’olio, “l’oro verde” come viene definito, così importante nella nostra alimentazione.
La raccolta viene eseguita, una volta come oggi, nel momento in cui il frutto raggiunge una buona maturazione. Già il vento d’autunno spazza via le olive più deboli o malate , creando una caduta prematura e naturale, che lascia sulla pianta solo le migliori, che poi una volta raccolte danno l’olio più buono. Era ed è un lavoro faticoso, che si faceva raccogliendo i frutti dal terreno e dai rami. Raccogliere dal terreno era un lavoro di pazienza e molto scomodo, delegato alle donne e ai più giovani. Sotto l’albero venivano sistemati dei teli per farvi cadere sopra le olive, c’è chi ricorda come nel dopoguerra venissero usati per tale scopo i teli dei camion degli Americani. Gli uomini con lunghe forcine di legno scuotevano i rami per farne cadere le olive, quelle che rimanevano attaccate ai rami si raccoglievano a mano. Venivano raccolte nei panieri che venivano svuotate nei sacchi, addirittura quando il lavoro era tanto, per velocizzare le operazioni, c’era una donna che svuotava solo i panieri.
I sacchi pieni, poi, venivano trasportati sui carretti fino a casa, dove le olive venivano messe sui terrazzi, “ncopp agl’ astreco” nel nostro dialetto, oppure in stanze vuote e ben arieggiate in modo da evitare fermentazioni. Ogni sera ci si passava dentro con i piedi in modo da capovolgerle e dopo qualche giorno si “cernevano”,cioè si ripulivano dalle foglie ed erano pronte per essere portate al frantoio, dove bisognava aspettare il proprio turno per macinare. Si svuotavano i sacchi nella vasca della macina , dove le olive venivano macinate da una a tre grosse ruote di pietra poste al centro della stessa vasca . Anticamente c’era un mulo che girava in tondo con una stanga sul collo che faceva roteare le macine circolari di pietra di granito, che schiacciavano le olive. I nòccioli delle olive venivano accantonati e usati come combustibile, anche nei forni per fare il pane.
Le maggiori proprietà di oliveti, erano, in passato, di poche famiglie latifondiste ma anche i piccoli coltivatori piantavano gli olivi nei propri appezzamenti di terreno per poter avere a disposizione l’olio per il fabbisogno della famiglia nel corso dell’anno.
La raccolta per i piccoli coltivatori coinvolgeva tutta la famiglia, erano impegnati tutti: nonni, zii, cugini e perfino i bambini, non si disdegnava l’aiuto di nessuno. Tra i giovani prevalevano gli scherzi soprattutto ci si sfidava a chi riempiva prima il paniere. Quando le olive erano giunte a maturazione bisognava darsi da fare per la raccolta anche se il tempo non era il tempo era bello, se non pioveva forte, si raccoglieva ugualmente e quella pioggerellina fine fine entrava fino alle ossa e qualche persona anziana ricorda che le mamme attente e premurose portavano le maglie asciutte per cambiare i loro bambini al lavoro per proteggerli da malattie da raffreddamento. Per quando era sera le manine erano gonfie come pagnottelle per essere state a contatto con l’acqua per tanto tempo.
Quando arrivava il momento della raccolta avveniva uno scambio di aiuto reciproco tra le famiglie contadine, che si scambiavano le giornate di lavoro per non pagare la manodopera e si facevano diversi tipi di accordi; se ad esempio, c’era qualcuno che aveva molte olive da raccogliere si accordava con qualche amico o conoscente, che si occupava della raccolta e poi al momento della spremitura, l’olio si divideva metà; il pagamento del frantoio, poi, toccava per due terzi al proprietario e per un terzo al raccoglitore.
Quando arrivava l’ora di mangiare, si faceva “ a 'mmarenna” cioè merenda, che consisteva in pane e salsiccia, ventresca, prosciutto, ma anche scarola condita, melenzane sott’olio ecc. ma c’era anche chi accendeva la brace e si arrostivano, un tempo, i “sarachiegli”, pesci salati buoni e gustosi, il cui unico inconveniente era quello di far venir sete. Era proprio quando si mangiava che si scherzava di più e veniva fuori lo spirito festoso, allegro e conviviale della raccolta.
L’olio ottenuto si conservava negli “zzerri”, recipienti di zinco, bianchi all’interno, che venivano fatti stagnare dagli stagnari di una volta e che erano completi di coppino, il mestolino con cui si prendeva l’olio, con gesti lenti e misurati, quasi come in un rito sacro, tanto era prezioso.
Quando in passato si rompeva una bottiglia di olio veniva considerato di malaugurio e faceva presagire qualche disgrazia, facendo venire pensieri funesti e preoccupazioni alle massaie per la propria famiglia, a cui pensavano sarebbe successo qualcosa. In realtà, l’olio è stato sempre un prodotto molto costoso e da usare con parsimonia, ecco perché la rottura di una bottiglia era considerata una vera disgrazia.
Oggigiorno la raccolta avviene in maniera anticipata e si va al frantoio che fa ancora caldo perchè il tempo è cambiato, inoltre sono state introdotte macchine specifiche che alleviano molto il lavoro. I frantoi sono provvisti di impianti che hanno eliminato molte delle attività manuali e la produzione dell’olio pur nel rispetto delle varie fasi, avviene meccanicamente. Non è cambiato, però, lo spirito festoso della raccolta come l’attesa, con un po’ di ansia e curiosità, quando si va al frantoio, di conoscere il sapore dell’olio e delle proprie fatiche. Si fa presto, poi, a testare l’olio su una fetta di pane vicino al camino, meglio ancora su una bruschetta o su un piatto di ceci o di fagioli con i vari commenti e paragoni.

Oggigiorno quasi tutti i frantoi eseguono il controllo della qualità dell’olio ed effettuano analisi per verificare principalmente parametri di acidità, i perossidi e i polifenoli.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
9

giovedì 25 novembre 2021

COMME CATARINEA NATALEA

"COMME CATARINEA NATALEA ".
Non è raro sentire questo detto tra le persone anziane. Esso sta a significare che come sono le condizioni metereologiche a santa Caterina d’Alessandria, il 25 novembre, così saranno il giorno di Natale e quindi per avere un Natale sereno bisogna sperare che a santa Caterina non piova.
Il proverbio , però, assume diverse varianti perché ce n’è anche un altro che dice: “Comme Barbarea, accussì Natalea” , riferendosi a santa Barbara ma c’è anche l’intreccio di un ulteriore proverbio che accomuna le due sante “ Comme Barbarea e Caterinea, accussì Natalea”.
Certamente il detto non è supportato da alcun fondamento logico che possa giustificare la pretesa di avere le stesse condizioni metereologiche a santa Barbara, a santa Caterina e a Natale ma la saggezza popolare nel passato, spesso legava fenomeni metereologici alle ricorrenze del calendario. Erano tempi in cui la gente era pervasa da un forte senso del destino, che confidava in un ordine superiore a cui tutto era legato e che faceva di ogni esperienza positiva o negativa un monito per il futuro.
Santa Caterina è una figura di grande importanza nella storia della cristianità, esempio e simbolo della donna coraggiosa e intrepida , capace di opporsi alla forza con la determinazione della fede e del suo sapere, donna di grande intelligenza e anticonformismo , ha contribuito a riscattare le donne da un pregiudizio millenario secondo il quale esse sono considerate di capacità mentali inferiori all’uomo. Nel racconto della sua vita non è facile distinguere la storia dalla leggenda. Si narra che sia nata ad Alessandria d’Egitto tra il III e il IV secolo. Di stirpe regale, perse i genitori dall’infanzia, crebbe indipendente, dedicandosi allo studio, circondata di dotti ed eruditi, diventando dottissima nella filosofia e nella religione. Si racconta che in quel periodo l’imperatore Massenzio, ma secondo i più Massimino Daia, giunse in Egitto per riportare alla religione pagana le popolazioni passate al Cristianesimo. Quando il sovrano giunse ad Alessandria ordinò che ogni persona si presentasse al tempio per sacrificare animali agli dei. Solo l’intrepida Caterina, seguita dai suoi sapienti, si presentò davanti al trono del tiranno , contestandogli il diritto di fare una tale imposizione e affermando di volere rimanere fedele a Cristo. Massimino pensò di tacitarla con qualche ragionamento ma si accorse di quale intelligenza aveva davanti e decise che la donna dovesse sostenere le sue idee davanti ad una commissione di 50 filosofi ma Caterina riuscì convertire tutti al Cristianesimo e per questo motivo furono tutti condannati. Lei fu arrestata e l’imperatore, che si era invaghito di lei , le fece la proposta di sposarlo e per lei avrebbe ripudiato la moglie. Caterina non volle saperne , allora fu percossa e condannata ad essere dilaniata dalla ruota dentata ma gli uncini e le lame si piegarono sul corpo di Caterina e la Santa non ebbe la minima scalfittura .                                                                 Fu poi sottoposta ad altre torture, imprigionata e tenuta per lungo tempo senza mangiare né bere. Ma una colomba bianca , secondo la tradizione, le portava ogni giorno quello di cui aveva bisogno. Infine l’imperatore ordinò che le venisse tagliata la testa. Una schiera di angeli, venuti dal cielo prese le spoglie della fanciulla e le sollevò in volo andandole a deporre sul monte Sinai, dove sant’ Elena, madre di Costantino, fece costruire una chiesa, in cui ancora oggi sono conservate le sue reliquie.






martedì 23 novembre 2021

Novembre tempo di olive

 


OLIVE FRACCATE Quando arriva il mese di novembre e si effettua la raccolta delle olive, oltre che portarle al frantoio per ricavarne l’olio, qui, a Mondragone, si usa anche mettere le olive “all’acqua” per poterle consumare durante l’anno e ci sono diversi modi di conservarle.



Uno di questi modi è quello di fare le OLIVE FRACCATE, che per gli altri sono schiacciate, per noi no: “fraccate” è il termine giusto. Il motivo è semplice: l’aggettivo fraccate viene dal verbo latino frango- is- fregi- fractum- ere,. Dal supino fractum deriva fraccate. Da esso derivano anche frantoio, frazione, infrangere, infranto ecc., tutti termini che hanno il significato di rompere, schiacciare, demolire.
Come sappiamo, al posto di Mondragone, un tempo, esisteva l’antica colonia romana di Sinuessa e i Sinuessani non ci hanno lasciato solo ruderi di ville, strade ecc. ma anche tracce della loro lingua nella nostra. D’altra parte, come si sa, la maggior parte delle parole della lingua italiana deriva dal latino.
Lasciando a parte questa breve riflessione linguistica, passo ad elencarvi le semplici operazioni per fare le olive fraccate.
Lavare le olive e metterle in uno scolapasta.
Schiacciare le olive con un batticarne o con un martello , una volta si schiacciavano con un sasso ovviamente ben lavato e ripulito.
Mettere le olive in un recipiente e ricoprirle di acqua.
Cambiare l’acqua alle olive una volta al giorno oppure diverse volte al giorno se si vuole farle addolcire più in fretta.
Dopo circa 8/10 giorni, appena le olive avranno perso l’amaro, si scolano si rovesciano su un canovaccio pulito, tamponandole per farle asciugare e si condiscono con sale, aglio a pezzetti, peperoncino, prezzemolo, origano, olio.
E’ arrivato il momento di gustarle: non hanno il sapore delle olive comprate ma sentirete un sapore, un gusto particolari, sono i sapori mondragonesi di una volta…
Cari amici, provate a farle, non ci vuole molto, però, mi raccomando fraccate e non schiacciate, so bene che è la stessa cosa ma per noi è tutta un’altra storia….

Accade anche che, in seguito alla pubblicazione di un post si riceva l'invito di un'emittente radiofonica come Radio Marte e ne segua una simpatica intervista!

lunedì 15 novembre 2021

A MEZA CANN

 A MEZA CANN


A Mondragone, quando una persona si sopravvaluta e si ritiene superiore alle sue reali possibilità, viene criticato dagli altri, che spesso commentano con ironia: - Ma chiglij nun s’ ammesur? Nun s’a mett a meza cann?
Il detto ha un suo fondamento e un suo preciso significato.
Quando ancora non esisteva il sistema metrico decimale, le unità di misura erano territoriali e ognuno aveva la sua.
Nell’ Ottocento nel Regno di Napoli si cercò di uniformare le misure istituendo come unità di misura la mezza canna, che misurava 5 palmi, ogni palmo era 26,4 cm, la canna intera era 10 palmi.
Era molto utile quando non c’erano gli strumenti necessari per conoscere le misure esatte.
Il sistema metrico decimale fu ideato e adottato in Francia nel 1795, fu introdotto in Piemonte nella seconda metà dell’Ottocento e poi si diffuse pian piano in tutto il Paese.
A Campobasso la lunghezza, in ferro,della mezza canna fu posizionata sulla facciata di un palazzo, in luogo pubblico e facilmente accessibile a tutti perché chiunque potesse misurare i metri di stoffa o di altro per verificare se erano giusti per ciò che servivano e anche per confrontarli con il prezzo di acquisto.
In passato quando qualcuno si dava importanza più del dovuto, gli si lasciava fuori dalla porta la mezza canna. Era un messaggio diretto, un chiaro invito a prendere le misure e a riconsiderare le giuste dimensioni.
Comunque, a Mondragone, per chi avesse bisogno, di canne ne abbiamo in abbondanza…..










giovedì 11 novembre 2021

ME PARE RU CAPUSTAZION DE MAIURIS

 ME PARE RU CAPUSTAZION DE MAIURIS




A Mondragone, quando si vede qualcuno che, nel suo lavoro, svolge diverse operazioni e fa tutto da solo senza l’aiuto di nessuno si usa dire: - Me par ru capustazion de Maiuris!
Il detto è nato dal fatto che a Maiorisi, piccola frazione di Teano, c’era, una volta, una fermata ferroviaria, posta lungo la linea ferroviaria Sparanise-Gaeta. Si trattava di una piccola fermata, di interesse esclusivamente locale e per questo motivo c’era un solo impiegato: il capostazione, che viveva lì con la sua famiglia. Era addetto a tutto: alzava la paletta per far partire e fermare il treno, faceva i biglietti, alzava la sbarra del passaggio a livello, caricava e scaricava bagagli ecc. Insomma, aveva un bel da fare!
Si sa che l’ultimo capostazione, fino al 1943, è stato il signor Vincenzo Iadicicco. Poi lo scalo ferroviario fu distrutto. Dopo la seconda guerra mondiale fu ricostruito ma nel 1957 venne soppresso insieme a tutta la linea.

Grazie alla sig.ra Clara Ricciardone

CUOFN SAGLIE E CUOFN SCEGN

 

A Mondragone, quando una persona attraversa un momento difficile e si sente sopraffare dalle difficoltà e si confida con qualcuno che gli vuol bene, si sente benevolmente consigliare da costui: - Fa’ cuofn saglie e cuofn scegn! E cioè:- Lascia che le cose vadano per il loro verso, non reagire, rimani impassibile e non te ne curare.
“Fa cuofn saglie e cuofn scegn” si dice anche di una persona poco attiva, passiva e sedentaria, indifferente a ciò che le accade intorno.
Il modo di dire è di origine napoletana e deriva dal modo in cui si svolgevano i lavori di ristrutturazione di una casa. Tutto il materiale da cambiare (mattonelle, santari, intonaci ecc.) veniva ridotto in piccoli pezzi e messo nei cuofani. Una robusta corda passata attraverso una carrucola veniva fissata ad un balcone, un muratore faceva scendere il cesto pieno mentre un altro muratore sotto al palazzo lo svuotava e lo rimandava su. Oggigiorno i cuofani sono stati sostituiti da tubi di plastica messi uno nell’altro molto più igienici e funzionali. Le operazioni erano lunghe ed estenuanti ma i muratori non si affrettavano, erano allenati alla sopportazione e alla lentezza. E’ da notare come i Napoletani, sempre arguti e attenti, siano riusciti a trarre un insegnamento di vita anche dall’osservazione di una semplice operazione quotidiana.
La parola cuofano deriva dal latino cophinus , attinto, a sua volta dal greco Kòphinus e sta ad indicare una cesta intrecciata, un contenitore, che poteva essere anche di notevoli dimensioni.
A Mondragone cuofani e cufuniegli, nell’antica società contadina, venivano utilizzati per il trasporto di qualsiasi cosa. Perfino quando si doveva portare portare il cuonsolo, cioè il pranzo alla famiglia di un defunto, tutto veniva trasportato nei cuofani: cibo, piatti, bicchieri. Anche quando si andava a mangiare sulla spiaggia per la festa dell’Assunta in essi si trasportava tutto l’occorrente.






martedì 9 novembre 2021

RU SART

 RU SART



A Mondragone viveva un sarto da tutti conosciuto e stimato. Spesso davanti alla sua bottega si fermavano amici e conoscenti e si intrattenevano a scambiare qualche chiacchiera mentre lui continuava a lavorare.
La sartoria o meglio la bottega del sarto, che da noi anticamente veniva chiamato “ru cus(e)tor”, era un luogo di ritrovo un po’ speciale, frequentato dai più benestanti perché una volta farsi cucire un vestito su misura dal sarto era un lusso.
Quando doveva tagliare, il sarto si chiudeva nella bottega e si assicurava che nessuno fosse presente; ovviamente lo faceva per avere una maggiore concentrazione nel taglio, che, come si sa, è un’operazione fondamentale per la confezione di un abito su misura. La cosa, però, non andava giù agli amici, che un giorno decisero di spiarlo dal buco della serratura.
Il sarto, tutto intento nel suo lavoro, steso un tessuto sul tavolo, incominciò a prendere le misure con il metro e a tracciare dei segni con il gessetto, controllando più di una volta le misure; quando si assicurò che tutto coincideva alla perfezione nel modello tracciato, iniziò a tagliare, e mentre tagliava, tutto concentrato, seguiva con una sorta di mugugno il rumore che facevano le forbici, derivante dall’attrito con la stoffa e con il tavolo.
Allora uno degli amici esclamò: - Ah, ecc pecché nun se vulev fa veré, pecché quann taglij, r’afferr lu mal!
Questo breve racconto della tradizione mondragonese ci fa riflettere su come certe volte la gente si ostina a voler cercare il male a tutti i costi e a vederlo in ogni situazione e quando lo trova o crede di averlo trovato, si rallegra e si compiace neanche avesse conquistato un trofeo.
Certo, però, che tristezza e che sterilità deve essere sprecare il proprio tempo in questo modo, a controllare gli altri e a giudicare, pur sapendo che il nostro tempo è prezioso così come la nostra vita, che di certo non abbiamo chiesto noi ma che ci è stata data in dono per amore. E se siamo stati creati per amore perché non amare? Anziché giudicare si potrebbe amare, semplicemente amare, ma amare proprio tutto del miracolo della vita e celebrarla ogni giorno come si conviene; potremmo scegliere di aprire il nostro cuore all’amore, a dare e a ricevere amore, anche se questo ci potrebbe rendere vulnerabili perché amare comporta il rischio di essere rifiutati, o feriti, ingannati, traditi ecc, ma accettarlo proprio per scelta perché anche questo fa parte della vita e rimanere sempre con il cuore aperto perché non si chiuda mai all’amore. Se la nostra vita è incentrata sull’amore, pur avendo ricevuto il male, riusciremo sempre a ritrovare la nostra pace e la gioia di vivere. Tenere chiuso il cuore per proteggerci non è vivere ma è sopravvivere perché vivere vuol dire amare. Non dovremmo aver paura, quindi, dell’amore, che ci rivoluziona la vita, che è capace di trasformare tutto, che ci fa uscire dai nostri piccoli recinti e ci fa andare verso la vita vera e pulsante, quella che avvertiamo ad ogni attimo e ad ogni respiro.
Converrebbe farlo ora quest’atto di coraggio o meglio questa rivoluzione interiore perché non abbiamo un’altra vita per cambiare idea, la vita è solo questa, “qui ed ora”.
Amare e far bene a qualcuno, poi, fa bene indirettamente anche a noi stessi, ci fa sentire utili e importanti per quella persona, ci dà una gioia, una pace e una grinta che neanche credevamo di avere .
Provare per credere…
Cari amici, mi farebbe piacere sapere cosa pensate di quei gran curiosoni degli amici del sarto….

Grazie come sempre alla carissima Clara Ricciardone






CE PURTAMM A BOTT!

 CE PURTAMM A BOTT!

Di solito, quando due persone, che non si vedono da un po’ di tempo, si incontrano e si salutano, si chiedono: - Come va? Tutto bene?, informandosi scambievolmente se va tutto bene nella salute e nella vita dell’altro.

A Mondragone, spesso e volentieri, quando si verifica una situazione del genere e la persona a rispondere è un adulto o un anziano, si sente rispondere ironicamente:- CE PURTAMM A BOTT! Intendendo per botta i colpi, le sconfitte, le difficoltà di ogni genere che la vita ci mette davanti.

Chi parla usa il plurale, che non è il “plurale maiestatis”, quello, per intenderci, che viene usato dalle autorità civili e religiose in veste ufficiale e istituzionale; si usa il “noi” al posto dell’”io” perché ci si sente partecipi di un destino comune, visto che la vita i colpi non li risparmia a nessuno e quindi è come dire: - Insieme agli altri e come tutti, anch’io mi porto la mia “botta”.
Non sempre è facile portarsi la “botta” specie quando si tratta di malattie gravi o invalidanti o di situazioni difficili che non si possono cambiare ma, anche se con difficoltà, pure in quei momenti, dobbiamo continuare a fare la nostra parte, ad andare avanti, ovviamente per quello che possiamo e fin quando possiamo, accogliendo e accettando con serenità, non rifiutando o resistendo alle batoste che la vita ci riserva.
In fondo non consiste anche in questo la dignità umana? Nel non arrendersi mai, nel portare avanti le proprie scelte anche nelle avversità, rispondendo sempre con il sorriso dietro cui si nasconde un dolore, con l’amore anche se dietro c’è rabbia e con il silenzio, mettendo dietro le nostre ragioni.
In certe situazioni difficili possiamo scegliere di abbandonarci al dolore e alla disperazione o cercare sempre l’amore in tutto: per noi, per gli altri, per la vita e il mondo intero che ci circonda e sarà proprio quell’amore che ci farà vivere quell’esperienza nel modo più sereno possibile.
Oggigiorno questo eroico e saggio atteggiamento umano viene chiamato RESILIENZA ossia la capacità di un uomo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
Io, personalmente, mi sento più affezionata alla tradizione, che compendia tutto questo in poche parole "CE PURTAMM A BOTT” o ancora più scherzosamemente “CE PURTAMM A BUTTARELL” , quando l’ entità del colpo ricevuto non è molto pesante.

lunedì 8 novembre 2021

I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE

 I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE

Un tempo i negozi erano pochissimi , perlomeno fino alla metà del Novecento:quello di generi alimentari, il tabaccaio, la farmacia … . Le spese importanti si facevano alla fiera annuale di S. Bartolomeo e al mercato settimanale. Diversi erano i venditori ambulanti che giravano per Mondragone, vendevano ma anche scambiavano prodotti e con il loro grido di richiamo finivano per diventare figure familiari e simpatiche, rimaste nella memoria popolare.

ZI GIUANN RU LUPINAR, il cui slogan era “nfacc(ia) o cat”, ti dava il cuoppo di carta con i lupini, sembrava ne prendesse tanti ma alla fine erano sempre pochi.
TUNNULELL , scomparsa da poco, storica venditrice, girava per tutto il paese, al grido, ben riconoscibile da tutti noi mondragonesi, “Chi vo ri vruoccl de rap, femmn!”. Oltre ai broccoletti, con la carriola, un tempo, vendeva le ciammarruche o lumache, gli ammariegli o gamberetti di fiume, ma anche le rane , già pulite e infilate nella “nsertulella”, prelibatissime per gli intenditori, avevano un sapore delicato, a metà tra il pesce e il pollo, oggi purtroppo scomparse.
CHIRICHELL CO GELAT Vendeva il gelato artigianale, al grido di “Vuagliù,chiagnit che mammà v’accatt!
CARMINUCC(IO) vendeva le noccioline americane ossia le arachidi, passava solo la domenica mattina e strillava “Jamm America”, faceva il cuoppo con carta di giornale
‘NTUNETT A PUCURARA Con il secchio in testa, vendeva le ricottine nelle formette di metallo, appena fatte e buonissime, costavano 20 lire l’una
NA PEZZA VECCHIA NU PALLONE Era il grido di richiamo dello straccivendolo, che in cambio di abiti smessi, regalava ai bambini un palloncino colorato.
PUPPINELL A PISCIAIOL Con la sua “trainella” vendeva il pesce per tutto il paese solo il martedì e il venerdì
CRIUNIC(E) ( Cleonice) vendeva a corso Umberto le caldarroste
TAGLIARELL E VONGOLE era il richiamo di zi Lisandr (Alessandro) ru pisciajuol
TONNINOLA Ripeteva Clementina, la vecchietta con la “conca” di plastica sulla bicicletta , che vendeva le telline anche al mercato
CHIGLIJ DELL’ACQUAFORT, girava con il camion e vendeva i detersivi e la candeggina, metteva la canzone della Madonna di Montevergine, in seguito iniziò a ripetere uno slogan”: Chi è bell, nun mor mai”
C’era poi quello delle tendine di plastica con il furgoncino, mentre ti affacciavi per comprare la tendina, era già andato via.
EMILIO PRUSUTTIEGLI(O) e il suocero con la macchina e con il megafono vendevano spezzi di tessuto.
Ogni tanto passava l' ARROTINO, la CAPELLARA, che raccoglieva i capelli che le donne conservavano apposta quando si pettinavano, in cambio di aghi, spilli, cotone per cucire.
Tanti altri ancora erano i venditori ambulanti che ora sfuggono alla memoria …….
Ringrazio come sempre Clara Ricciardone testimone attenta dei tempi che furono e accattivante narratrice.




domenica 7 novembre 2021

ME PAR RU PUORC CU A SPOGNA MMOCC

 ME PAR RU PUORC CU A SPOGNA MMOCC

A Mondragone si usa questo detto quando si vede qualcuno che sta mangiando con gusto qualcosa di buono, che lo fa sentire soddisfatto proprio come il maiale quando mangia, contento, una pannocchia di granturco ma si usa anche più in generale quando ci si riferisce a una persona che ha fatto qualcosa di cui è particolarmente orgoglioso e il risultato che è riuscito ad ottenere lo fa sentire felice e completamente appagato.

Certo l’apprezzamento non è molto lusinghiero ma non c’è da stupirsi troppo per il paragone perché i contadini di un tempo facevano spesso riferimento al maiale, un animale molto importante nell’alimentazione di una volta perché forniva alla famiglia contadina le proteine animali per tutto l’anno.
Il granturco, che era alla base della sua alimentazione, veniva fatto macinare e impastato con acqua calda, di solito l’acqua di cottura della pasta e diventava il pastone “ru vron” , che il maiale mangiava con grande appetito.
Il maiale si ammazzava di solito a gennaio o comunque con il freddo per una migliore conservazione delle carni. Già nella settimana precedente la massaia preparava l’occorrente: il sale, il peperoncino, lo spago per legare le salsicce ecc. Quando arrivava il fatidico giorno, si faceva per così dire “la festa” alla povera bestia, che veniva spaccata in due e appesa a “ru cursal”, sotto al portone. La testa veniva appoggiata come un trofeo sullo scanno o tavolaccio e in bocca gli veniva messo un limone sicché il maiale con la bocca aperta sembrava che ridesse.
La padrona di casa preparava la colazione per gli uomini che erano venuti ad aiutare: fagioli, papaccelle( peperoni sott’aceto di forma tonda) , poi veniva servito come secondo la carne cosiddetta “di capa”,ancora insanguinata e poi noci e mandarini. Si trattava di una colazione molto sostanziosa e che si faceva in quel modo solo per quell’occasione, certo era per stomaci robusti non certo come oggi che come si esagera un po’, si sta male e bisogna correre dal medico.
Del maiale non si buttava via niente, solo la codina attorcigliata. Tra gli intervenuti c’era sempre chi suggeriva a qualche bambino di infilarla di nascosto in tasca a qualcuno e poi facendo finta di scoprirla all’improvviso tutti ne ridevano e per questo motivo gli uomini stavano bene attenti a non farsi raggirare perché chi ci cascava diventava lo zimbello della situazione.
10 Q Mrs. Clara Ricciardone



giovedì 4 novembre 2021

R’ANNU MISS A CAVAGLI(0) A RU PUORC!


R’ANNU MISS A CAVAGLI(0) A RU PUORC!


A Mondragone si usa dire così di una persona che è stata messa in ridicolo dagli altri. Si dice così perché effettivamente vedere una persona che cavalca un maiale ha del ridicolo ed è improbabile che succeda ma in passato poteva succedere davvero.
A Gennaio, appena dopo le feste di Natale, a Mondragone era tradizione ammazzare il maiale.
Quando si ammazzava il maiale, tra le persone che partecipavano c’era aria di festa ma anche un’atmosfera carica di attesa e di emozione, specie per i bambini e per la massaia che aveva accudito il maiale; era come se se ne andasse un amico, uno di famiglia.
Durante i mesi in cui veniva allevato, il maiale veniva curato e rispettato, mai maltrattato, si cercava in tutti i modi di farlo stare bene, ci si affezionava e si scherzava con lui quasi come si fa con il cane.
Le mamme, quando arrivava il grande giorno, facevano rimanere a letto i bambini più piccoli per non farli assistere alla scena cruenta dell’uccisione e quando le urla dell’animale si diffondevano nell’aria, qualcuno si tappava la orecchie per non sentire ma, d’altra parte, lo si accettava perché si sa che la vita di alcuni animali serve per la sopravvivenza alimentare dell’uomo.
Tanti sono gli episodi che si raccontano, relativi all’uccisione del maiale. Una volta in una casa contadina del rione San Francesco era arrivato il fatidico giorno. Tutto era pronto per fare “la festa” alla povera bestia, che quell’anno arrivò a pesare la bellezza di 120 chili.
Era venuto ad aiutare il padrone di casa anche il cognato, un commerciante di vino, che vestiva sempre in maniera distinta, in giacca, cravatta e cappello. Quando fu l’ora, i due cognati si avviarono alla stalla per prendere il maiale, il quale poverino si era accorto che qualcosa non andava e non voleva proprio saperne di uscire; i due cercavano di spingerlo, di tirarlo ma la povera bestia si intestardiva sempre di più.
Ci fu un vero combattimento corpo a corpo con l’ostinato suino, i familiari da fuori sentivano e immaginavano la scena, quando videro spuntare all’improvviso il maiale che correva all’impazzata per il cortile, e in groppa, a cavallo, portava il commerciante, che con una mano si reggeva al maiale per non cadere e con l’altra si reggeva il cappello.
Tutti ridevano, ma sotto i baffi, per non urtare lo zio che era venuto ad aiutare. Ci volle il bello e il buono per far salire il maiale sullo scanno e faceva male sentire quelle urla strazianti, la bestia si dimenava, cercava di liberarsi, sbuffava, ma erano gli ultimi, estremi tentativi di un destino ineluttabile.
Il maiale vendeva cara la pelle, fece sudare sette camicie agli uomini che cercavano di tenerlo fermo. Dopo un po’ tutto era finito: il lavoro ferveva, la colazione era pronta, e tutti a mangiare e poi, nel corso della giornata, il profumo della carne arrostita, quello dei fegatelli avvolti nella rete di maiale, con la foglia di alloro, i sanguinacci e tutto il resto rincuorava e rallegrava grandi e piccoli e ben presto le grida del maiale erano state dimenticate. Era proprio il caso di dire: - Morto il re, viva il re! nel senso che il maiale, il re delle carni e della tavola, con il suo sacrificio aveva procurato tante prelibatezze.