I racconti popolari mondragonesi quasi sempre avevano lo scopo di intrattenere divertendo, e cogliendo il lato ridicolo delle situazioni intendevano suscitare ilarità e buonumore, anche se nascondevano sempre qualche insegnamento.
Il blog di Caterina Di Maio dedicato alle tradizioni locali, agli usi, costumi e racconti di Mondragone CE, curato e pubblicato da Esterina La Torre
martedì 30 novembre 2021
A FURTUNA MIJA
LA RACCOLTA DELLE OLIVE
La raccolta delle olive è un vero e proprio rituale che si ripete ogni anno tra la fine di ottobre e novembre. Dalla loro macinazione al frantoio si ottiene l’olio, “l’oro verde” come viene definito, così importante nella nostra alimentazione.
La raccolta viene eseguita, una volta come oggi, nel momento in cui il frutto raggiunge una buona maturazione. Già il vento d’autunno spazza via le olive più deboli o malate , creando una caduta prematura e naturale, che lascia sulla pianta solo le migliori, che poi una volta raccolte danno l’olio più buono. Era ed è un lavoro faticoso, che si faceva raccogliendo i frutti dal terreno e dai rami. Raccogliere dal terreno era un lavoro di pazienza e molto scomodo, delegato alle donne e ai più giovani. Sotto l’albero venivano sistemati dei teli per farvi cadere sopra le olive, c’è chi ricorda come nel dopoguerra venissero usati per tale scopo i teli dei camion degli Americani. Gli uomini con lunghe forcine di legno scuotevano i rami per farne cadere le olive, quelle che rimanevano attaccate ai rami si raccoglievano a mano. Venivano raccolte nei panieri che venivano svuotate nei sacchi, addirittura quando il lavoro era tanto, per velocizzare le operazioni, c’era una donna che svuotava solo i panieri.
I sacchi pieni, poi, venivano trasportati sui carretti fino a casa, dove le olive venivano messe sui terrazzi, “ncopp agl’ astreco” nel nostro dialetto, oppure in stanze vuote e ben arieggiate in modo da evitare fermentazioni. Ogni sera ci si passava dentro con i piedi in modo da capovolgerle e dopo qualche giorno si “cernevano”,cioè si ripulivano dalle foglie ed erano pronte per essere portate al frantoio, dove bisognava aspettare il proprio turno per macinare. Si svuotavano i sacchi nella vasca della macina , dove le olive venivano macinate da una a tre grosse ruote di pietra poste al centro della stessa vasca . Anticamente c’era un mulo che girava in tondo con una stanga sul collo che faceva roteare le macine circolari di pietra di granito, che schiacciavano le olive. I nòccioli delle olive venivano accantonati e usati come combustibile, anche nei forni per fare il pane.
Le maggiori proprietà di oliveti, erano, in passato, di poche famiglie latifondiste ma anche i piccoli coltivatori piantavano gli olivi nei propri appezzamenti di terreno per poter avere a disposizione l’olio per il fabbisogno della famiglia nel corso dell’anno.
La raccolta per i piccoli coltivatori coinvolgeva tutta la famiglia, erano impegnati tutti: nonni, zii, cugini e perfino i bambini, non si disdegnava l’aiuto di nessuno. Tra i giovani prevalevano gli scherzi soprattutto ci si sfidava a chi riempiva prima il paniere. Quando le olive erano giunte a maturazione bisognava darsi da fare per la raccolta anche se il tempo non era il tempo era bello, se non pioveva forte, si raccoglieva ugualmente e quella pioggerellina fine fine entrava fino alle ossa e qualche persona anziana ricorda che le mamme attente e premurose portavano le maglie asciutte per cambiare i loro bambini al lavoro per proteggerli da malattie da raffreddamento. Per quando era sera le manine erano gonfie come pagnottelle per essere state a contatto con l’acqua per tanto tempo.
Quando arrivava il momento della raccolta avveniva uno scambio di aiuto reciproco tra le famiglie contadine, che si scambiavano le giornate di lavoro per non pagare la manodopera e si facevano diversi tipi di accordi; se ad esempio, c’era qualcuno che aveva molte olive da raccogliere si accordava con qualche amico o conoscente, che si occupava della raccolta e poi al momento della spremitura, l’olio si divideva metà; il pagamento del frantoio, poi, toccava per due terzi al proprietario e per un terzo al raccoglitore.
Quando arrivava l’ora di mangiare, si faceva “ a 'mmarenna” cioè merenda, che consisteva in pane e salsiccia, ventresca, prosciutto, ma anche scarola condita, melenzane sott’olio ecc. ma c’era anche chi accendeva la brace e si arrostivano, un tempo, i “sarachiegli”, pesci salati buoni e gustosi, il cui unico inconveniente era quello di far venir sete. Era proprio quando si mangiava che si scherzava di più e veniva fuori lo spirito festoso, allegro e conviviale della raccolta.
L’olio ottenuto si conservava negli “zzerri”, recipienti di zinco, bianchi all’interno, che venivano fatti stagnare dagli stagnari di una volta e che erano completi di coppino, il mestolino con cui si prendeva l’olio, con gesti lenti e misurati, quasi come in un rito sacro, tanto era prezioso.
Quando in passato si rompeva una bottiglia di olio veniva considerato di malaugurio e faceva presagire qualche disgrazia, facendo venire pensieri funesti e preoccupazioni alle massaie per la propria famiglia, a cui pensavano sarebbe successo qualcosa. In realtà, l’olio è stato sempre un prodotto molto costoso e da usare con parsimonia, ecco perché la rottura di una bottiglia era considerata una vera disgrazia.
Oggigiorno la raccolta avviene in maniera anticipata e si va al frantoio che fa ancora caldo perchè il tempo è cambiato, inoltre sono state introdotte macchine specifiche che alleviano molto il lavoro. I frantoi sono provvisti di impianti che hanno eliminato molte delle attività manuali e la produzione dell’olio pur nel rispetto delle varie fasi, avviene meccanicamente. Non è cambiato, però, lo spirito festoso della raccolta come l’attesa, con un po’ di ansia e curiosità, quando si va al frantoio, di conoscere il sapore dell’olio e delle proprie fatiche. Si fa presto, poi, a testare l’olio su una fetta di pane vicino al camino, meglio ancora su una bruschetta o su un piatto di ceci o di fagioli con i vari commenti e paragoni.
Oggigiorno quasi tutti i frantoi eseguono il controllo della qualità dell’olio ed effettuano analisi per verificare principalmente parametri di acidità, i perossidi e i polifenoli.
giovedì 25 novembre 2021
COMME CATARINEA NATALEA
martedì 23 novembre 2021
Novembre tempo di olive
OLIVE FRACCATE Quando arriva il mese di novembre e si effettua la raccolta delle olive, oltre che portarle al frantoio per ricavarne l’olio, qui, a Mondragone, si usa anche mettere le olive “all’acqua” per poterle consumare durante l’anno e ci sono diversi modi di conservarle.
lunedì 15 novembre 2021
A MEZA CANN
A MEZA CANN
Il detto ha un suo fondamento e un suo preciso significato.
Quando ancora non esisteva il sistema metrico decimale, le unità di misura erano territoriali e ognuno aveva la sua.
Nell’ Ottocento nel Regno di Napoli si cercò di uniformare le misure istituendo come unità di misura la mezza canna, che misurava 5 palmi, ogni palmo era 26,4 cm, la canna intera era 10 palmi.
Era molto utile quando non c’erano gli strumenti necessari per conoscere le misure esatte.
Il sistema metrico decimale fu ideato e adottato in Francia nel 1795, fu introdotto in Piemonte nella seconda metà dell’Ottocento e poi si diffuse pian piano in tutto il Paese.
A Campobasso la lunghezza, in ferro,della mezza canna fu posizionata sulla facciata di un palazzo, in luogo pubblico e facilmente accessibile a tutti perché chiunque potesse misurare i metri di stoffa o di altro per verificare se erano giusti per ciò che servivano e anche per confrontarli con il prezzo di acquisto.
In passato quando qualcuno si dava importanza più del dovuto, gli si lasciava fuori dalla porta la mezza canna. Era un messaggio diretto, un chiaro invito a prendere le misure e a riconsiderare le giuste dimensioni.
Comunque, a Mondragone, per chi avesse bisogno, di canne ne abbiamo in abbondanza…..

giovedì 11 novembre 2021
ME PARE RU CAPUSTAZION DE MAIURIS
ME PARE RU CAPUSTAZION DE MAIURIS
A Mondragone, quando si vede qualcuno che, nel suo lavoro, svolge diverse operazioni e fa tutto da solo senza l’aiuto di nessuno si usa dire: - Me par ru capustazion de Maiuris!
Il detto è nato dal fatto che a Maiorisi, piccola frazione di Teano, c’era, una volta, una fermata ferroviaria, posta lungo la linea ferroviaria Sparanise-Gaeta. Si trattava di una piccola fermata, di interesse esclusivamente locale e per questo motivo c’era un solo impiegato: il capostazione, che viveva lì con la sua famiglia. Era addetto a tutto: alzava la paletta per far partire e fermare il treno, faceva i biglietti, alzava la sbarra del passaggio a livello, caricava e scaricava bagagli ecc. Insomma, aveva un bel da fare!
Si sa che l’ultimo capostazione, fino al 1943, è stato il signor Vincenzo Iadicicco. Poi lo scalo ferroviario fu distrutto. Dopo la seconda guerra mondiale fu ricostruito ma nel 1957 venne soppresso insieme a tutta la linea.
CUOFN SAGLIE E CUOFN SCEGN
martedì 9 novembre 2021
RU SART
RU SART
A Mondragone viveva un sarto da tutti conosciuto e stimato. Spesso davanti alla sua bottega si fermavano amici e conoscenti e si intrattenevano a scambiare qualche chiacchiera mentre lui continuava a lavorare.
La sartoria o meglio la bottega del sarto, che da noi anticamente veniva chiamato “ru cus(e)tor”, era un luogo di ritrovo un po’ speciale, frequentato dai più benestanti perché una volta farsi cucire un vestito su misura dal sarto era un lusso.
Quando doveva tagliare, il sarto si chiudeva nella bottega e si assicurava che nessuno fosse presente; ovviamente lo faceva per avere una maggiore concentrazione nel taglio, che, come si sa, è un’operazione fondamentale per la confezione di un abito su misura. La cosa, però, non andava giù agli amici, che un giorno decisero di spiarlo dal buco della serratura.
Il sarto, tutto intento nel suo lavoro, steso un tessuto sul tavolo, incominciò a prendere le misure con il metro e a tracciare dei segni con il gessetto, controllando più di una volta le misure; quando si assicurò che tutto coincideva alla perfezione nel modello tracciato, iniziò a tagliare, e mentre tagliava, tutto concentrato, seguiva con una sorta di mugugno il rumore che facevano le forbici, derivante dall’attrito con la stoffa e con il tavolo.
Allora uno degli amici esclamò: - Ah, ecc pecché nun se vulev fa veré, pecché quann taglij, r’afferr lu mal!
Questo breve racconto della tradizione mondragonese ci fa riflettere su come certe volte la gente si ostina a voler cercare il male a tutti i costi e a vederlo in ogni situazione e quando lo trova o crede di averlo trovato, si rallegra e si compiace neanche avesse conquistato un trofeo.
Certo, però, che tristezza e che sterilità deve essere sprecare il proprio tempo in questo modo, a controllare gli altri e a giudicare, pur sapendo che il nostro tempo è prezioso così come la nostra vita, che di certo non abbiamo chiesto noi ma che ci è stata data in dono per amore. E se siamo stati creati per amore perché non amare? Anziché giudicare si potrebbe amare, semplicemente amare, ma amare proprio tutto del miracolo della vita e celebrarla ogni giorno come si conviene; potremmo scegliere di aprire il nostro cuore all’amore, a dare e a ricevere amore, anche se questo ci potrebbe rendere vulnerabili perché amare comporta il rischio di essere rifiutati, o feriti, ingannati, traditi ecc, ma accettarlo proprio per scelta perché anche questo fa parte della vita e rimanere sempre con il cuore aperto perché non si chiuda mai all’amore. Se la nostra vita è incentrata sull’amore, pur avendo ricevuto il male, riusciremo sempre a ritrovare la nostra pace e la gioia di vivere. Tenere chiuso il cuore per proteggerci non è vivere ma è sopravvivere perché vivere vuol dire amare. Non dovremmo aver paura, quindi, dell’amore, che ci rivoluziona la vita, che è capace di trasformare tutto, che ci fa uscire dai nostri piccoli recinti e ci fa andare verso la vita vera e pulsante, quella che avvertiamo ad ogni attimo e ad ogni respiro.
Converrebbe farlo ora quest’atto di coraggio o meglio questa rivoluzione interiore perché non abbiamo un’altra vita per cambiare idea, la vita è solo questa, “qui ed ora”.
Amare e far bene a qualcuno, poi, fa bene indirettamente anche a noi stessi, ci fa sentire utili e importanti per quella persona, ci dà una gioia, una pace e una grinta che neanche credevamo di avere .
Provare per credere…
Cari amici, mi farebbe piacere sapere cosa pensate di quei gran curiosoni degli amici del sarto….
CE PURTAMM A BOTT!
CE PURTAMM A BOTT!
Di solito, quando due persone, che non si vedono da un po’ di tempo, si incontrano e si salutano, si chiedono: - Come va? Tutto bene?, informandosi scambievolmente se va tutto bene nella salute e nella vita dell’altro.
A Mondragone, spesso e volentieri, quando si verifica una situazione del genere e la persona a rispondere è un adulto o un anziano, si sente rispondere ironicamente:- CE PURTAMM A BOTT! Intendendo per botta i colpi, le sconfitte, le difficoltà di ogni genere che la vita ci mette davanti.
lunedì 8 novembre 2021
I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE
I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE
Un tempo i negozi erano pochissimi , perlomeno fino alla metà del Novecento:quello di generi alimentari, il tabaccaio, la farmacia … . Le spese importanti si facevano alla fiera annuale di S. Bartolomeo e al mercato settimanale. Diversi erano i venditori ambulanti che giravano per Mondragone, vendevano ma anche scambiavano prodotti e con il loro grido di richiamo finivano per diventare figure familiari e simpatiche, rimaste nella memoria popolare.
domenica 7 novembre 2021
ME PAR RU PUORC CU A SPOGNA MMOCC
ME PAR RU PUORC CU A SPOGNA MMOCC
A Mondragone si usa questo detto quando si vede qualcuno che sta mangiando con gusto qualcosa di buono, che lo fa sentire soddisfatto proprio come il maiale quando mangia, contento, una pannocchia di granturco ma si usa anche più in generale quando ci si riferisce a una persona che ha fatto qualcosa di cui è particolarmente orgoglioso e il risultato che è riuscito ad ottenere lo fa sentire felice e completamente appagato.
giovedì 4 novembre 2021
R’ANNU MISS A CAVAGLI(0) A RU PUORC!
R’ANNU MISS A CAVAGLI(0) A RU PUORC!
A Mondragone si usa dire così di una persona che è stata messa in ridicolo dagli altri. Si dice così perché effettivamente vedere una persona che cavalca un maiale ha del ridicolo ed è improbabile che succeda ma in passato poteva succedere davvero.
A Gennaio, appena dopo le feste di Natale, a Mondragone era tradizione ammazzare il maiale.
Quando si ammazzava il maiale, tra le persone che partecipavano c’era aria di festa ma anche un’atmosfera carica di attesa e di emozione, specie per i bambini e per la massaia che aveva accudito il maiale; era come se se ne andasse un amico, uno di famiglia.
Durante i mesi in cui veniva allevato, il maiale veniva curato e rispettato, mai maltrattato, si cercava in tutti i modi di farlo stare bene, ci si affezionava e si scherzava con lui quasi come si fa con il cane.
Le mamme, quando arrivava il grande giorno, facevano rimanere a letto i bambini più piccoli per non farli assistere alla scena cruenta dell’uccisione e quando le urla dell’animale si diffondevano nell’aria, qualcuno si tappava la orecchie per non sentire ma, d’altra parte, lo si accettava perché si sa che la vita di alcuni animali serve per la sopravvivenza alimentare dell’uomo.
Tanti sono gli episodi che si raccontano, relativi all’uccisione del maiale. Una volta in una casa contadina del rione San Francesco era arrivato il fatidico giorno. Tutto era pronto per fare “la festa” alla povera bestia, che quell’anno arrivò a pesare la bellezza di 120 chili.
Era venuto ad aiutare il padrone di casa anche il cognato, un commerciante di vino, che vestiva sempre in maniera distinta, in giacca, cravatta e cappello. Quando fu l’ora, i due cognati si avviarono alla stalla per prendere il maiale, il quale poverino si era accorto che qualcosa non andava e non voleva proprio saperne di uscire; i due cercavano di spingerlo, di tirarlo ma la povera bestia si intestardiva sempre di più.
Ci fu un vero combattimento corpo a corpo con l’ostinato suino, i familiari da fuori sentivano e immaginavano la scena, quando videro spuntare all’improvviso il maiale che correva all’impazzata per il cortile, e in groppa, a cavallo, portava il commerciante, che con una mano si reggeva al maiale per non cadere e con l’altra si reggeva il cappello.
Tutti ridevano, ma sotto i baffi, per non urtare lo zio che era venuto ad aiutare. Ci volle il bello e il buono per far salire il maiale sullo scanno e faceva male sentire quelle urla strazianti, la bestia si dimenava, cercava di liberarsi, sbuffava, ma erano gli ultimi, estremi tentativi di un destino ineluttabile.
Il maiale vendeva cara la pelle, fece sudare sette camicie agli uomini che cercavano di tenerlo fermo. Dopo un po’ tutto era finito: il lavoro ferveva, la colazione era pronta, e tutti a mangiare e poi, nel corso della giornata, il profumo della carne arrostita, quello dei fegatelli avvolti nella rete di maiale, con la foglia di alloro, i sanguinacci e tutto il resto rincuorava e rallegrava grandi e piccoli e ben presto le grida del maiale erano state dimenticate. Era proprio il caso di dire: - Morto il re, viva il re! nel senso che il maiale, il re delle carni e della tavola, con il suo sacrificio aveva procurato tante prelibatezze.