venerdì 31 dicembre 2021

LE SCRIPPELLUCCE SCAURATE

 LE SCRIPPELLUCCE SCAURATE: LA TRADIZIONE 





Posto con piacere la mia ricetta collaudata delle scrippellucce della tradizione.

A Mondragone, una volta, il 31 dicembre era “rituale” fare le scrippellucce, che si facevano “pe devozione”, come qualcuno dice ancora oggi e come si diceva per ogni preparazione culinaria riferita al Natale o alla Pasqua o ad altre feste religiose.

Con questo modo di dire, in effetti,  si mescola   il sacro al profano perché si sa che la devozione è legata al culto, alle preghiere e alle pratiche religiose che non hanno nulla a che vedere con le scrippellucce, gli struffoli, il baccalà o l’insalata di rinforzo e quant’altro, eppure, a pensarci bene,  l’espressione non ha nulla di irriverente o in contrasto con  il sacro.  Sappiamo tutti  che il Natale, qui a Mondragone,    è legato ad alcuni cibi e dolci  particolari che ci sono stati tramandati di generazione in generazione  e  con quest’espressione, quindi,  si intende dire che anche attraverso il cibo della tradizione  si vuole rispettare, celebrare, onorare   questa festività    e la devozione ad essa  legata; è il nostro modo di vivere il Natale   anche attraverso cibi, diventati per così dire “rituali”, come  è consuetudine  la preparazione dell’albero e del presepe e  la novena degli zampognari ed altro.  E’  in questo modo che   la tradizione popolare si unisce  a quella  religiosa ed è così che il sacro si lega sempre al profano e tutti e due si può dire che  vanno di pari passo.

 Anche oggi si continuano a fare le scrippellucce , solo che oggi sono diventate un optional, data l’abbondanza dei dolci che ci sono tutto l’anno. Cerchiamo di mantenere viva questa tradizione poiché oltre ad essere buone, le scrippellucce raccontano la cultura del nostro paese. Lasciando da parte queste considerazioni, vengo subito alla ricetta. 

INGREDIENTI

1 litro d’acqua – ½ kg di farina – abbondante limone (freschissimo) grattugiato – vaniglia – un pizzico di sale – un bastoncino di cannella. 

PREPARAZIONE

Mettere l’acqua in una pentola  dal fondo spesso, aggiungere sale, limone, vaniglia, cannella

Quando l’acqua bolle, si versa la farina a pioggia come per la polenta mentre  si gira di continuo con il cucchiaio di legno. 

Appena tutta la farina viene assorbita dall’acqua, l’impasto si indurisce e diventa difficile e faticoso girare con il cucchiaio di legno, per questo motivo suggerisco di non utilizzare più di mezzo chilo di farina per volta; se si vuole raddoppiare o triplicare le dosi,  si può preparare l’impasto in più riprese. 

Si continua a girare per almeno 2/3 minuti, questo  è un momento  importante della preparazione  perché in questa fase l’impasto  subisce una prima cottura,  diventa più sodo e così  non si aprirà in frittura e non assorbirà troppo olio e poi,   continuando a girare  si eliminano i grumi di farina,  si  gira fin quando sul fondo non si formerà una patina biancastra e l’ impasto si staccherà dalle pareti e dal fondo. 

Si capovolge poi l’impasto sul tavolo e con le mani unte di olio si stacca un pezzetto di impasto alla volta e si schiaccia con il fondo di un bicchiere o con un batticarne per eliminare eventuali grumi  ( vi assicuro che con queste dosi,  grumi non dovreste trovarne affatto,  si formano i grumi quando si mette molta farina, io ne  trovavo molti  quando mettevo  uguale quantità di farina e di acqua, secondo una ricetta che mi avevano dato)

Si lavora di nuovo l’impasto tutto insieme e si mette a riposare per mezz’ora o un’ora, ma quando l’impasto è ben fatto, le scrippellucce si possono fare anche subito, senza riposo.

Si prende un pezzetto  di impasto alla volta,  lo si allunga   con le mani sul tavolo,  formando  dei bastoncini cilindrici, a cui si dà la forma di un fiocchetto. 

Si friggono in abbondante olio di arachidi . Si fanno scolare e poi si passano in zucchero e cannella.

Vi consiglio per la prima volta di iniziare con piccole dosi, magari con mezzo chilo di farina per testare la ricetta ma quando ci avrete preso la mano, vi raccomando, fatene tante perché è bello portarle in dono ad amici e parenti e soprattutto a chi non può farle, proprio come facevano una volta perché per noi Mondragonesi è anche questo il senso del Natale: tradizione e condivisione. 

Chi le riceverà vi accoglierà di sicuro con un sorriso forse di sorpresa o di gioia, chi può dirlo, quello che è  certo è che ne sarete contenti anche voi, credetemi!

BUON ANNO A TUTTI

lunedì 27 dicembre 2021

RU BUCU BUC: IL CANTO TRADIZIONALE DI FINE ANNO



Tanti anni fa, la sera del 31 dicembre, giorno dedicato a san Silvestro, alcuni gruppi di giovani, muniti di strumenti musicali semplici costruiti per lo più da loro stessi, quali triccaballacche, tammorre, buchi buchi e qualche fisarmonica, si recavano di casa in casa ed eseguivano un canto tradizionale di fine anno: il buco buco, con il quale formulavano gli auguri di buon anno e a portavano “la buona notizia” della nascita di Cristo, chiedendo in cambio di ricevere la “nferta” in natura e in denaro. Era davvero una bella tradizione, un momento di aggregazione sociale che riusciva ad affratellare tutti, nello scambio degli auguri e nella speranza di un futuro migliore. Purtroppo questa festosa e allegra tradizione è scomparsa da noi mentre viene mantenuta ancora in vita a Sessa Aurunca e in tutte le sue frazioni.

Il buco buco è un tamburo dal suono basso e cupo, costituito inizialmente da una pentola di coccio, sulla quale veniva distesa una membrana animale( ad es. la vescica del maiale), legata con uno spago. Al centro poi veniva praticato un piccolo buco attraverso il quale si infilava una canna, che dopo essere stata inumidita, produceva, grazie alla frizione dall’alto verso il basso, il suono tipico del contrabbasso.
La pentola di coccio, che fu sostituita poi con un contenitore di legno o di latta, faceva da cassa di risonanza. I bucobuchisti per evitare di scorticarsi il palmo della mano utilizzavano un panno umido per frizionare la canna.
Questo è il testo del canto che alcuni ancora ricordano:
Buchi buchi santu Suluviestr
La scrippella sta sott o tiest
(Ru tiest e ru tian
E buchi buchi mast’Aitan ) Rip. 2 v
Stella stella assaje lucent
Che ri re Maggi accompagnast
(Ma li Giurei de Gerusalemm
Nun arrivavan a camminare ) Rip 2 v.
Nui simm poveri poveri
Ne venimm da Casoria
(Casoria e Messina
Simm poveri pellegrini ) Rip. 2 v.
Nuje ne venimm da luntan
P v purtà chistu buon signal
(Si permess vuje ce rat
Quanta cos che ve raccuntamm) Rip. 2 v.
Simm stat in quella rotta
Addò è nat ru Divin Agnell
Rent a ru cor de la mezzanotte
Tra ru bov e l’asinell
(Quann ru vuagli(o) stev cantenn
Gesù Crist stev nascenn) Rip. 2 v.
Ru patron d sta casa
Mo ce la caccia na bona spas
D’auciat e susamiegli
E na vintin de carriniegli
(D’auciat e cu lu vin
Ce ra pur tre carlin ) Rip. 2 v.
Che grand’ onor ch’amm avut
Rent a sta cas simm trasut
(vuje penzat e teniteci a mment
che simm figli de bona gent) Rip. 2 v.
Ve venimm a salutare
L bbon fest v venimm a dare
Assì la ‘nfert ce mettit annanz
Facitacell priest e abbundant
(Facitacella cu l trezz
e cu tutt l cuntentezz). Rip 2 v.
Fate presto, fate presto e non tardate
Che nuje avimm da camminare
( V’auguramm bon fine d’anno
E nu buonissimo Capodanno). Rip. 2 v.
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giovedì 23 dicembre 2021

LE SCRIPPELLE DI NATALE

  Era una Vigilia di Natale di tanti anni fa, nel rione S. Francesco fervevano i preparativi per il Cenone e tutti erano presi da una gioiosa euforia nell’attesa della Nascita Santa. Anche nella famiglia Marta ci si dava da fare perché tutto fosse pronto e niente lasciato al caso. Francesco Marta, il capofamiglia, faceva il muratore ma sapeva fare tanti altri mestieri. Era meglio conosciuto come Mastu Ciccio “ru lampiunar” perché suo padre, uomo alto di statura, era addetto ad accendere e spegnere i lampioni, che si trovavano nei punti principali del paese, a cui accedeva con una scaletta, quando ancora non erano illuminati con la corrente elettrica. Sua moglie Rusinella, come ogni anno, ad un certo punto, incominciò a friggere le zeppolelle, ma non poche tanto per gustare bensì “nu cufunieglj” pieno perché la famiglia era numerosa e poi solo quello c’era a quell’epoca, si era negli anni ’50 ed era da poco passata la guerra, ma con quel che c’era a disposizione si cercava comunque di rispettare tutte le ritualità. Da abile massaia, la donna prendeva l’impasto a cucchiaiate e lo faceva cadere nell’olio bollente e quello subito si gonfiava, formando le zeppole, le girava e le rigirava fino a farle diventare dorate. Uno dei figli, rincasando, si fermò ad osservarla e disse: - Oimà, ma facit semp accussì? mimando il gesto della madre - Pecché nun facit nu poc accussì? E con la mano sull’olio faceva finta di tracciare un segno circolare continuo. La madre capì e raccolse l’invito, nell’impasto che aveva ancora a disposizione mise dello zucchero, vaniglia e cannella, scorza di limone grattugiato, un po’ di liquore fatto in casa e mescolò bene per amalgamare tutto; poi, prendendo con le mani quell’impasto morbidissimo e tutto bolloso perché ben lievitato, incominciò a versarlo nell’olio, partendo dal centro e facendo giri concentrici, che mai faceva interrompere fino ad arrivare alla massima larghezza della padella . Friggeva le scrippelle da un lato e poi le rigirava dall’altro con grande attenzione e maestria. Poi, dopo averle messe a scolare per eliminare l’olio in eccesso, le cospargeva di zucchero e con grande gioia di tutti, la famiglia mangiò le scrippelle alla vigilia di Natale. Non erano grandi come quelle di oggi ovviamente, avevano la larghezza delle padelle che avevano a disposizione allora, ma buonissime e profumatissime.

Questo episodio mi è stato riferito dalla signora Vincenzina Marta, figlia di Francesco, una novantaseienne dalla mente lucidissima, purtroppo scomparsa pochi mesi fa, che mi ha raccontato tanto della vita passata mondragonese. Ve l’ho voluto raccontare perché da questo racconto mi sono resa conto che l’impasto delle scrippelle è quello delle zeppolelle di Natale, cioè quello della “pasta cresciuta”, come noi la chiamiamo. Nelle scrippelle, se avete notato, c’è anche il pepe proprio come nelle zeppolelle. Un’altra conferma alla mia ipotesi la troviamo in un verso del Buchi Buchi , il canto beneaugurante , che si faceva il 31 dicembre, in cui si legge “la scrippella sta sott o tiest”. Come mai si parla di scrippella alla vigilia di Capodanno? Perché è proprio nelle due Vigilie, di Natale e di Capodanno , che si facevano le zeppolelle e quindi si potevano fare anche le scrippelle, visto che l’ impasto era lo stesso. C’è anche da notare che in Sicilia le zeppolelle si chiamano proprio crispelle perché l’impasto quando cade nell’olio bollente tende ad incresparsi; le crispelle da noi, per effetto della contaminazione linguistica, sono diventate scrippelle, non riferito alle zeppolelle, bensì al dolce che conosciamo.
Insomma, se non sappiamo quando sono nate le scrippelle, almeno sappiamo come sono nate. Certo non sappiamo chi fu la prima massaia mondragonese a friggere l’impasto in maniera circolare ma possiamo senz’altro dire che è stata geniale a creare questo dolce, che non passa certo inosservato: grande, profumato e dorato, strabiliante solo a guardarlo, realizzato con ingredienti semplicissimi: farina, acqua, lievito, zucchero e profumi inebrianti. A chi si poteva dedicare un dolce così? Ovviamente agli sposi per festeggiare il giorno più importante della loro vita, il coronamento del loro sogno d’amore, con quella forma a spirale che prolunga all’infinito il movimento circolare, simbolo della vita che si rinnova continuamente e perciò beneaugurante per la fertilità degli sposi.
Per quanto concerne le notizie storiche mi è stato riferito che negli anni ’50 già si facevano le scrippelle per i matrimoni e la prima scrippellara che si ricorda di quel periodo si chiamava Marianna Bomba. Ricordo anche che le scrippelle per il mio matrimonio le ha fatte la sig.ra (E)miliozza Lapiello, di Via Venezia.





martedì 21 dicembre 2021

UN FURTO SACRILEGO

 Quando, a causa delle leggi eversive napoleoniche, i monaci non c’erano più a Mondragone e la chiesa era contesa dagli altri parroci perché più grande e accogliente rispetto alle altre, avvenne che la Chiesa Madre o di S. Giovanni Battista o dell’Incaldana era cadente a causa di un terremoto subito ed erano urgenti lavori di restauro; fu per questo motivo che il parroco Ferdinando Sementini chiese al Gran Giudice ed ottenne di trasferire la parrocchia nella chiesa di S. Francesco per tutto il periodo dei lavori, che durarono diversi anni.
In questo periodo, precisamente nel 1839 avvenne un fatto, riferito dalla tradizione popolare ma riportato anche da Luca Menna, storico e notaio carinolese nel “Saggio istorico sulla città di Carinola”, il quale racconta: - “Una donna di cui si tace il nome, rubò tutto o la maggior parte dell’oro di detta sacrosanta Vergine, ch’era riposto nella sua nicchia, che allora esisteva nella chiesa del Monistero di S. Francesco per dar luogo alle fabbriche in detta Chiesa Madre, ma calando la donna col furto fu assalita da colpo apoplettico e cadde semiviva in modo che, carponi per terra, appena ebbe la forza di allontanarsi pochi passi dall’altare da cui era calata; trovata la mattina in questo stato, fu interrogata, ma non rispose, perché priva di favella, la quale ritornata per intercessione di questa pietosa Madre, palesò il delitto, si pentì dell’errore e dopo confessata, immantinente nel luogo stesso cessò di vivere” (Nella foto si vede l' immagine della Madonna come veniva raffigurata prima del restauro del 1954)




lunedì 20 dicembre 2021

“AGGIA UTTA’ RU COR A RU VIENT”

Qualche volta ho sentito quest’ espressione mondragonese da mia madre quando succedeva qualcosa che le procurava dolore e che doveva accettare senza potersi opporre . Capivo che voleva dire non voler pensare sempre alla stessa cosa che le dava tormento. “Lanciare il cuore nel vento” voleva dire non volersi far sopraffare dalla mente ma affidarsi al vento perché la mente, si sa, che gira e rigira e vuole ritornare sempre sullo stesso pensiero fino a torturarci all’infinito e allora, anziché seguire la mente conviene seguire il sentire del corpo, sentire e non pensare, perché la mente drammatizza sempre ed è catastrofica, va sempre oltre la realtà, o nel passato, facendoci soffrire per situazioni che non sono più reali o nel futuro, immaginando cose che non sono reali. Il corpo, invece, non mente; difficilmente, infatti, riusciamo a nascondere sentimenti di gioia o di sofferenza, che traspaiono dal nostro corpo come da un libro aperto. La mente, al contrario, mente, e non è solo un gioco di parole. E’ bello sentire il soffio del vento sul viso o quando ci scompiglia capelli, ancora più bello sarebbe seguirlo e farsi trasportare su spiagge mai viste, su sentieri sconosciuti e poterlo seguire anche quando con la forza dell’uragano, come un cavallo imbizzarrito, ci trascina in boschi selvaggi, lasciandoci senza fiato e rivoltandoci sottosopra, facendoci assaporare la libertà e azzerando, nel contempo, tutte le nostre certezze e stabilità ed è allora che tutto si rinnova, tutto si rimette in discussone , tutto ricomincia e magari nel ricominciare impariamo ad accogliere anche le nostre delusioni e sofferenze e a costruire qualcosa di buono, partendo proprio da esse, anziché aderire a quel fatalismo che ci impoverisce e ci immobilizza , facendoci sentire sempre inadeguati. C’è davvero qualcosa di benevolo e di amabile nel vento, che non spazza via solo le nuvole ma anche i nostri pensieri, lasciamoci soffiare dentro la sua freschezza, la sua energia vitale e le nostre preoccupazioni si allontaneranno come foglie d’autunno .
Alla fine, in ogni detto antico c’è sempre un fondamento di verità e la saggezza popolare aveva sempre ragione , anche riguardo al vento e ai pensieri tristi.




domenica 19 dicembre 2021

DON CICCIO

La figura di questo sacerdote è stata molto importante e significativa nella storia della chiesa di S. Francesco. Nato a Mondragone il 7-1- 1872, morto nel 1951, abitava proprio di fronte alla chiesa di S.Francesco , figlio di una famiglia benestante e molto devota. Compiuti gli studi presso il Seminario di Sessa Aurunca,fu ordinato sacerdote da Mons. Diamare il 30-3-1895. Quando i monaci francescani dovettero andar via da Mondragone a causa delle leggi eversive napoleoniche, la rettoria della chiesa fu affidata prima a un religioso che per malattia non poté sloggiare dal convento e in seguito ai vari parroci confinanti. Essendo abbastanza ampia e funzionale, era molto ambita dai parroci di S. Rufino e di S. Giovanni Battista. Il parroco di S. Rufino nel 1811 ad ogni costo voleva trasferire la sua parrocchia nella chiesa francescana perché la sua era piccola e malandata. In seguito con decreto del 23-1-1812 si stabilì che delle quattro parrocchie esistenti allora se ne costituisse una sola , quella di san Giovanni Battista con S. Angelo e S. Rufino coadiutrici. Il parroco di S. Rufino Ferdinando Sementini con l’unificazione delle parrocchie venne trasferito nella centrale chiesa di S. Giovanni Battista. Essendo questa quasi cadente a causa di un terremoto chiese al Gran Giudice di trasferire la sua parrocchia per tutto il periodo dei lavori di restauro, che durarono diversi anni, nella chiesa francescana.

Molte richieste furono fatte nel corso degli anni per il ripristino del soppresso monastero di S. Francesco da parte del sindaco, del clero e dei cittadini ma sempre con esito negativo.
Ancora continuarono le rivendicazione della suddetta chiesa da parte dei parroci di S. Giovanni Battista e S Rufino e ripetute lettere furono inviate al Vescovo fino a che qualcosa di nuovo avvenne.
Nella famiglia Gravano che abitava di fronte alla chiesa di S. Francesco, il figlio Francesco diventò sacerdote nel 1895 ed era molto devoto del Poverello di Assisi. Egli, nel 1917, dopo aver superato mille ostacoli e tramite conoscenze varie, riuscì a comprare la chiesa di S. Francesco con la sacrestia e il piazzale esterno dal demanio ma il padre che aveva finanziato l’acquisto per il figlio sacerdote, volle che fosse intestata la proprietà a lui e ai due fratelli, don Adolfo e don Eduardo. Poiché non fu chiesta alcuna autorizzazione alla Curia di Sessa, don Ciccio, come da tutti veniva familiarmente chiamato, venne sospeso dal Vescovo, il quale era venuto a conoscenza del fatto da una lettera anonima firmata “Lucio Vero”.
Il Gravano allora scrisse una lunga e commovente lettera al Vescovo in cui espose gli sforzi e i sacrifici compiuti per salvare la chiesa di san Francesco dalle mani di coloro che volevano impossessarsene per adibirla ad usi profani. Si recò allora a Roma per avere una sanatoria , promettendo di trasferire in S. Francesco la piccola e cadente chiesa di S. Rufino, dove era l’aiutante del parroco Petrella e fu assolto. Alla morte del Petrella , fu nominato parroco di S. Rufino ed essendo la chiesetta cadente trasferì la parrocchia nella chiesa di S. Francesco. Ricevette il possesso canonico della suddetta chiesa dal vescovo Fortunato De Santa e compì sempre le funzioni parrocchiali. Con grande zelo fece radicali restauri sostenendo le spese con denaro personale e familiare.
Il vescovo De Santa però insistentemente gli chiedeva di cedere la chiesa alla Diocesi ma egli si schermiva dicendo che doveva persuadere i fratelli ai quali pure era stata fatta l’intestazione. Il 19 marzo del 1946 il Gravano, essendo ormai anziano e malato, presentò le dimissioni da parroco. Gli successe don Salvatore Razzino già viceparroco. Don Salvatore però riprese a celebrare i sacri riti nella chiesa di S. Rufino ormai restaurata.
Così il Gravano prima della sua morte con animo nobile e generoso volle ridare ai figli di S. Francesco quella chiesa che loro malgrado furono costretti ad abbandonare. Si rivolse al Provinciale di allora, P Giacomo Iovine e questi inviò due giovani frati, P. Paolo Monsurrò di Torre Annunziata e fra Benigno Fele da Qualiano.
Dalle testimonianze orali si sa che don Ciccio era molto generoso e caritatevole, quando andava a benedire le case nel periodo pasquale e riceveva in dono le uova come si usava all’epoca, le regalava a sua volta alle massaie del rione. La famiglia aveva tanti terreni di proprietà e quando si raccoglievano le mandorle, le donava ad ogni famiglia del rione, lasciandole fuori alla porta; quando qualcuno, uscendo, le trovava, ne informava gli altri, dicendo : - E’ venuto don Ciccio, ha portato le mandorle! Alle ragazzine che portavano l’acqua in casa dalla fontana alla governante Erminia regalava sempre qualche soldo e loro di corsa andavano alla bottega a comprare le spezzatelle o le barchette di liquirizia. Quando diventò anziano e non sopportava più le intemperanze dei ragazzini in chiesa era solito dire: -Fuori! La chiesa è mia , vado dal maresciallo dei Carabinieri! Quando si faceva la Via Crucis, aveva in mano un bastone con il quale colpiva in testa qualche ragazzino che si distraeva non per picchiarlo, solo per richiamarlo all’attenzione. Prima di morire donò tutta le sue proprietà alla chiesa di S. Francesco, che furono poi rivendute per la costruzione del nuovo convento. Anche l’area dove ora si trovala piazzetta Nassiria,in via Elena, apparteneva alla sua famiglia. Quando morì gli furono tributate esequie molto solenni, da S. Pasquale a Chiaia venne un pulmino con più di 30 monaci che cantarono nel coro che animò la celebrazione eucaristica.


sabato 18 dicembre 2021

Chi fa mal a ri muon(a)c(i) San Francisc(o) se ne paga

 Chi fa mal a ri muon(a)c(i)

San Francisc(o) se ne paga
Da questo detto mondragonese si evince come erano amati i monaci francescani nel nostro paese, a conferma della vita esemplare e dell’apostolato che essi svolgevano in mezzo al popolo e della stima che godevano presso tutti.
Dopo la morte del Santo ogni città faceva a gara per avere i figli di san Francesco nella propria terra e ad essi è attribuita la fondazione di numerosi conventi e chiese a lui intitolate.
I fondatori del nostro convento e della chiesa sono stati i duchi Carafa della Stadera, signori di Mondragone dal 1464 al 1690,denominati così per distinguerli dall’altro ramo detto “della Spina”. L’emblema, una stadera scolpita in marmo, si trova ancora nella chiesa di san Francesco.
Fu Don Antonio Carafa della Stadera, principe di Stigliano, duca di Maddaloni,a fondare la chiesa e il Convento , dove si insediarono i monaci.
Dalla tradizione e dalle Cronache risulta quanto essi abbiano espletato la loro missione con la parola e con l’esempio , studiandosi di riportare il popolo cristiano a quell’ideale evangelico per il quale san Francesco aveva consumato tutta la sua esistenza terrena.
Il convento, che aveva la capacità di ospitare da 10 a 12 frati, era composto da un piano terra con officine e chiostro, refettorio e stalla con mangiatoia e un primo piano adibito a dormitori.
La chiesa, posta a destra dell’antico convento, di stile romanico, inizialmente si chiamava dell’ “Annunziata” grazie ad un’ aedicula dedicata all’Annunciazione di Maria.
Purtroppo dopo quattro secoli di vita pacifica, stimati dal popolo, anche i frati francescani di Mondragone risentirono dell’ondata eversiva e persecutoria che investì la Chiesa e gli Ordini Religiosi agli inizi dell’800.
Con l’arrivo di Napoleone e con le cosiddette “leggi eversive” vennero soppressi gli Ordini Religiosi francescani e confiscati i loro beni, i fabbricati conventuali furono incamerati dallo Stato e concessi ai Comuni per utilizzo di pubblica utilità.
Tra i conventi soppressi ci fu anche quello di Mondragone. Non sempre le truppe francesi si comportarono bene, in alcuni casi uccisero i vecchi frati rimasti nei conventi. Il nostro convento nel 1812 fu concesso al Comune e fu adibito a scuola pubblica, furono costruite cisterne per uso della popolazione e il Comune vi aveva depositi di oggetti vari . La chiesa rimase sempre aperta alla devozione popolare e solo per un breve periodo servì a bivacco delle truppe, che vi facevano le esercitazioni militari.
All’era napoleonica seguirono poi, altri eventi storici come tutti sappiamo e solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo 135 anni dalla soppressione degli Ordini religiosi, il 6 ottobre i Frati Minori ritornarono a Mondragone, dopo quasi un secolo e mezzo di assenza.
Furono inviati nel nostro paese due giovani frati: P. Paolo Monsurrò di Torre Annunziata e fra Benigno Fele da Qualiano, ai quali nel tempo se ne aggiunsero altri.
Quando i monaci ritornarono a Mondragone, c’era tanta povertà, il fraticello “ ru picuozzo” andava in giro con la bisaccia a chiedere l’elemosina e le famiglie anche se povere, davano e condividevano con i monaci quello che avevano.
Tra i monaci e le famiglie del rione c’era un rapporto davvero speciale di amicizia, di rispetto, improntato alla cordialità e alla semplicità. Il saluto che rivolgevano sinceramente a chiunque era “Pace e bene” , il saluto di S. Francesco, l’augurio più bello e rassicurante che si possa rivolgere ad una persona.
Quando i monaci ritornarono a Mondragone nel ’46 non avevano più dove alloggiare perché il convento era diventato proprietà privata e non fu più possibile riaverlo indietro, bisognava costruire un nuovo convento e questo fu possibile grazie alla donazione dell’avvocato Giovanni Schiappa di 380 mq a Nord della chiesa.
E Il 16 ottobre del ‘49 iniziò la costruzione del nuovo convento. Ci vollero circa 9 anni per la sua totale realizzazione . I lavori furono eseguiti grazie alla tenace volontà e ai sacrifici dei Francescani, agli aiuti dei benefattori.
Le famiglie più benestanti : Gravano, Caracciolo, Greco, Cardella, Fusco, Sementini, La Torre, tutti furono generosi benefattori. La famiglia Razzano non faceva mai mancare la guantiera con il caffè né la famiglia Cardella pizze , pastiere ecc. Il pescivendolo mandava loro il pesce già pulito.
La famiglia Caracciolo, don Onorato e donna Antonietta che non avevano figli, alloggiavano tutti i monaci quando si facevano le 40 ore , anche 14/15 alla volta per dormire, furono proprio loro, tra l’altro, che donarono il terreno ai Passionisti per la costruzione della chiesa di S. Giuseppe.
Anche tra i monaci e le altre famiglie del rione c’era tanto affetto fraterno e familiarità. Di qualsiasi cosa venisse preparata in casa se ne faceva una porzione per i monaci : il pane, la pizza, i lupini, le bottiglie di pomodoro; se si ammazzava il maiale gli si mandava l’arrosto, se si faceva la composta, un vasetto era per i monaci , se si scioglieva la sugna, un vasetto era per loro ma siccome ogni famiglia aveva il pensiero di donare ai monaci, accadeva che a volte le offerte erano superiori ai loro bisogni e allora le sorelle De Simone che avevano un negozio di vernici, in via Iolanda, rivendevano la sugna o la composta e il ricavato andava ai monaci per la costruzione del convento.
Era tutta una gara di solidarietà tra gli abitanti del rione per sostenere i monaci che hanno insegnato tanto ed educato il popolo alla fede cristiana. In particolare essi si recavano spesso a mangiare presso la famiglia La Torre, che abitava nella “cortiglia larga” quasi di fronte alla chiesa, a casa di zi Cicciglio Chiuovo.
Diversi sono gli episodi ricordati dalle persone anziane, relativi al ritorno dei monaci a Mondragone.
Una volta nel periodo della vendemmia tre frati si recarono a casa La Torre per prendere l’uva, zi Cicciglio stava scaricando le balle di fieno mettendole l’una sull’altra, una di esse cadde e lui si lasciò scappare una bestemmia . I monaci erano in tre, senza indugio, lo presero e lo misero a testa in giù in una botte e lui che non se l’aspettava gridava: - Disgraziati! Non venite più qua! E loro: Chiedi scusa a Gesù! Bestemmi più? E lui: - No, no, tiratemi fuori! Alla fine finì lo scherzo ma zi Ciccio imparò la lezione.
Una volta per le sante 40 ore venne a predicare P. Costantino Noce da Firenze. Il fratello di zio Ciccio che era un accanito donnaiolo, una sera ascoltò la sua predica e ne rimase colpito. Si recò dal fratello, sapendo che i monaci andavano a mangiare da lui e gli chiese di farglielo conoscere, il fratello non voleva e lo mandò via: - Vattenne , stu scunduttato! Ma lui una sera si presentò da solo, entrò in amicizia con P. Costantino e lo cercava spesso, poi si confessò e pian piano cambiò vita.
Una volta i monaci, di giovedì santo dovevano andare a Napoli per la Messa Crismale e siccome a quell’epoca la sacrestia non si chiudeva, tutto era ancora in stato di abbandono, non erano ancora stati fatti i lavori e i monaci portavano il calice e gli arredi sacri di valore nella casa della Caserma vecchia, in via Elena, di fronte a via Crocifisso, dove alloggiavano, di proprietà della famiglia del sacerdote don Ciccio Gravano, per paura che li rubassero. Raccomandarono a fra Benigno, ru picuozzo , un fraticello piccolo di statura, di non muoversi di là e di non far entrare nessuno. Quando fu ora di pranzo zi Cicciglio lo andò a chiamare per farlo mangiare a casa sua per ben tre volte ma lui rifiutò categoricamente. Poi arrivò una donna che andava a Messa ogni giorno e che era al corrente del fatto e portò un cesto pieno di ogni ben di Dio per il pranzo ma lui non mangiò fino al ritorno dei suoi confratelli.




venerdì 17 dicembre 2021

LE SPINE SANTE

 A proposito delle rivalità fra i rioni mondragonesi, nella storia del Casale di Sant’Angelo si racconta che nei pressi del Palazzo Ducale, all’angolo tra Via Napoli e Via XI Febbraio, c’era un rovo di spine, dette “sante” perché simili a quelle che conficcarono in testa a Gesù; con esse si intrecciavano le corone di spine, che si utilizzavano per le processioni pasquali. Qui i Mondragonesi di un tempo si prendevano a sassate anche per futili motivi. Pare che i dissensi avvenissero quasi sempre per motivi amorosi e nascevano tra le famiglie, appartenenti ai diversi rioni, che non vedevano di buon occhio l’idillio amoroso che poteva nascere tra due giovani; si diceva: - Cia verimmo a le spine sante! Generalmente le liti si concludevano con la pace, all’avvenuto fidanzamento e sicuro matrimonio dei giovani in questione. Pare che i Santangiolesi, che erano più preparati tecnicamente, avessero sempre la meglio; le donne addirittura si riempivano i grembiuli di pietre, per fornirle ai mariti che così le avevano più a portata di mano nello scontro. Sarà vero ….. o è un’opinione di parte?

(Il disegno è dell'insegnante Margherita Bevilacqua) 



giovedì 16 dicembre 2021

“ I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE”



“ I VENDITORI AMBULANTI DI UNA VOLTA A MONDRAGONE”
Mi rendo conto di aver omesso qualche venditore nella prima parte per cui, volendo rimediare, ricordo che c’era anche quello del ferro vecchio, che in cambio del ferro dava pochi spiccioli, oggi c’è ancora ma non dà proprio niente, anzi è un favore di smaltimento che fa.
SUIGLIJ(O) Lo si aspettava il mercoledì pomeriggio con un tre ruote (Apecar) e vendeva olive, salumi, cioccolato nocciolato o bianco e nero, a me interessava soprattutto quest’ultimo.
PULLASTON Erano i fratelli Rennella , che con la trainella vendevano polli e uova, gridando a gran voce “Pullast paisan” “Ov da zucà” ovvero uova fresche da bere.
Verso la fine degli anni ’70 girava la macchina pubblicitaria del “TUTTO A 1000 LIRE”: “10 rotoli di carta igienica doppio velo, ovattata, pagate solo 1000 lire, signora! Ricordate?
Nei tempi più recenti passava l’ARROTINO: “Arrota coltelli, forbici e forbicine, ripara le vostre cucine a gas, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio”.
A portarci la frutta a buon mercato sul vicolo veniva ZI ARMAND RU CINES con il camioncino e ci faceva un’abbondante buona mano.
E come dimenticarci di CIPPALLE’, che abitava proprio sul vicolo di via Pergola (abbascia a ri Sabbatin), vendeva i cocomeri con la prova e te lo faceva anche scegliere. Il vero nome è ARMANDO XXXXXXXX . A quei tempi ascoltava il programma radiofonico Hit- parade ma non conoscendo l’inglese, ripeteva Cippallé per cui dopo aver gridato tre o quattro volte per strada l’incitazione Cippallé , fu chiamato simpaticamente, a vita, Cippallé. 








lunedì 13 dicembre 2021

A santa Lucia nu passo de gallina

  •  A santa Lucia nu passo de gallina
  • A sant’ Anieglio nu passo d’ainieglio

Il detto accomuna S. Lucia e S. Aniello perché festeggiati a un giorno di distanza l’una dall’altro, la prima il 13 e il secondo il 14 dicembre. Sta significare che mentre il 13 dicembre, a santa Lucia, le ore di luce durano molto poco come poca è la distanza tra i passi di una gallina, il 14 dicembre, a sant’Aniello , esse aumentano di poco come aumenta il passo di un agnellino.
Celebre è anche il detto “Santa Lucia il giorno più corto che ci sia”. Esso risale a ben 5 secoli fa, prima del 1582, anno della riforma gregoriana del calendario; prima di allora vigeva il calendario giuliano, fatto stilare da Giulio Cesare, in cui santa Lucia coincideva con il solstizio d’inverno e quindi con il giorno più corto dell’anno a cui seguivano inevitabilmente giornate con più ore di luce. Papa Gregorio XIII attuò una riforma del calendario per risolvere il problema della sfasatura, che si era venuta a creare tra il calendario civile e il ciclo solare. Il calendario giuliano, non essendo molto preciso, nei suoi 1500 anni di vita aveva accumulato una differenza di dieci giorni sul vero tempo solare tanto che l’equinozio di primavera cadeva l’11 marzo anziché il 21. Papa Gregorio fece eliminare i 10 giorni di scarto e così anche il solstizio d’inverno dal 13 dicembre passò al 21 dicembre ma la festa di santa Lucia rimase sempre al 13 e anche il detto si è tramandato invariato fino ai nostri giorni; perciò contrariamente a quello che molti ancora credono, non è quello di santa Lucia il giorno più corto bensì quello del 21 dicembre.
Santa Lucia e sant’Aniello: due santi, vissuti a circa due secoli di distanza, così lontani nel tempo eppure così vicini agli occhi dei fedeli.
Santa Lucia è una santa molto popolare, venerata come protettrice della vista, difatti viene raffigurata con un piatto in mano contenente i suoi occhi. Nacque a Siracusa sul finire del III secolo da ricca e nobile famiglia. Rimasta orfana di padre da bambina, fu educata nella fede cristiana dalla madre Eustichia. Da fanciulla, si recò a Catania sulla tomba di sant’Agata nella speranza di ottenere la guarigione di sua madre, molto malata. Cadde in un sonno profondo nel quale le apparve sant’Agata, che le annunciò che la grazia era stata concessa. Difatti la madre guarì e da quel momento Lucia decise di restare vergine e di consacrarsi al Signore. Vendette i suoi beni e donò tutto ai poveri. Il suo promesso sposo, allora, la denunciò come cristiana al governatore della città, Pascasio. Costui condannò Lucia al martirio e si racconta che alla santa, prima di essere uccisa, fossero cavati gli occhi , che le furono immediatamente restituiti dal Signore.
Sant’Aniello o sant’Agnello è vissuto a due secoli di distanza. Nacque a Napoli nel 535 d.C. da una donna anziana, che credeva di non poter avere figli fino a quando non ricevette il dono della maternità per grazia della Madonna. Dopo aver partorito, portò il bambino in chiesa per offrirlo alla Madonna e il neonato, che aveva solo 20 giorni, davanti all’immagine della Vergine , esclamò: -Ave Maria! Da questa storia probabilmente parte l’usanza che lega la protezione delle future mamme al culto del Santo. Nel giorno della sua festa, infatti, secondo una tradizione comune a tutta la penisola sorrentina, tutte le future mamme si recano in chiesa ad onorare il Santo e a mettersi sotto la sua protezione. Si racconta che il ragazzo, poi , raggiunta l’età dell’adolescenza, si ritirò a vivere in solitudine in una grotta. In seguito entrò a far parte dell’Ordine dei Benedettini , diventando abate del convento di san Gaudioso , dove fondò un ospedale per infermi bisognosi. Morì il 14 dicembre del 535.



 




ME PAR PUTRUSIN OGNI M(E)NEST

 ME PAR PUTRUSIN OGNI M(E)NEST 



 Tanti sicuramente ricorderanno questo detto, che viene usato non solo a Mondragone ma in tutto il Sud Italia.

Il prezzemolo è un’erba aromatica, che viene utilizzata in tutte le minestre, cioè in quasi tutte le preparazioni culinarie e quindi sempre presente.
Quando con questo detto ci si riferisce a qualcuno, si vuole intendere che si tratta di una persona invadente, che si infila in ogni discussione o situazione, che sta “sempre in mezzo”, come si dice da noi, anche quando non gli riguarda, pur di dire la sua.
Ci si riferisce, quindi, a qualcuno che non conosce la riservatezza e non sa stare al suo posto e mette lingua dappertutto.
CARI AMICI,
a proposito, se ancora sentite qualche vecchietta che chiede al fruttivendolo un po’ di putrusin, anziché del prezzemolo, non c’è da meravigliarsi, lei sta parlando in latino, la lingua madre dell' italiano. Prezzemolo, infatti, viene dal latino petroselinum.



domenica 12 dicembre 2021

LA CENA DELLA VIGILIA

 LA CENA DELLA VIGILIA si può dire che era più importante del pranzo di Natale, un momento sacro in cui tutta la famiglia si riuniva. La cena era tipica, così come oggi, e si componeva di varie portate: spaghetti con le vongole, baccalà, preparato in vari modi, per le famiglie più ricche il capitone, broccoli, insalata di rinforzo, zeppolelle con alici e baccalà, frutta secca e poi struffoli, roccocò, mustacciuoli e susamiegli, a seconda dell’agiatezza della famiglia. Tra le altre portate, in alcune famiglie si preparavano i cucuzzi, un piatto di recupero della cucina mondragonese: bucce di melone fatte essiccare al sole, fatte rinvenire in acqua, infarinate e fritte , condite con una salsina di aglio e aceto. Venivano chiamate anche “le anguille dei poveri” in quanto chi non si poteva permettere di comprare le anguille, le sostituiva ironicamente in questo modo. Si risparmiava per tutto l’anno ma si faceva di tutto perché a Natale niente mancasse sulla tavola, secondo la tradizione; si stava, però, bene attenti che le provviste durassero per tutte le feste per cui il paniere con la frutta secca, ad esempio, veniva appeso in alto ad una pertica di legno nella grande cucina contadina perché nessuno vi potesse accedere. Sul finire della cena, arrivava il momento della frutta secca che i bambini aspettavano molto interessati perché il papà distribuiva loro le noccioline e tutti contenti le conservavano perché dopo cena si mettevano a giocare: “a piccul”, spingendo la nocciola con l’indice e il pollice, facendola rotolare, per mandarla in una fossetta e a “senghetieglio e tuzza” in cui una nocciola doveva riuscire a colpirne un’altra. Chi vinceva, si portava via tutto il malloppo oppure alla fine divideva le nocciole con gli altri. I bambini erano felici con poco, certo erano altri tempi e altri giochi, ma pur sempre giochi di abilità. Nell’attesa di recarsi in chiesa, si iniziava, poi, il gioco della tombola, in quell’atmosfera scherzosa e giocosa che si viene a creare solo la notte di Natale. Le ore passavano senza fretta, con semplicità ma di certo nessuno si annoiava. C’era anche chi si metteva a ballare e a cantare nell’attesa della nascita santa: nel rione san Francesco, ad esempio, c’era una donna che sapeva ballare, e battendo gli zoccoli per darsi il ritmo, e suonando il tamburo cantava, ripetendo le parole degli zampognari: -A notte de Natale è notta santa , ru Padre e ru Figliuolo e ru Spiritu Santo! Evviva Natale! Evviva Natale! E tutti , presi da una gioiosa euforia ripetevano e l’accompagnavano nel canto, battendo le mani. Quando stava per scoccare la mezzanotte, tutti si recavano in chiesa per assistere alla Santa Messa. Per illuminare le strade, quando non c’era ancora l’energia elettrica, secondo quanto riferito dagli anziani, ai due lati della strada si accendevano gli “strugli”, delle torce realizzate con la “stramma”, un’ erba che cresce in montagna. Al ritorno a casa si deponeva il Bambino, ormai nato, nella mangiatoia. Al mattino le donne incominciavano presto a preparare il pranzo di Natale con cura e nei minimi dettagli, che non era rigoroso come la cena della Vigilia in quanto si diversificava e ognuno preparava quello che preferiva ma secondo un’antica usanza, chi poteva, preparava il cappone ripieno in brodo e tagliolini in brodo. Ragazzi, giovani e adulti , vestiti a festa , andavano a portare gli auguri a parenti e ad amici. Ai più piccoli, i nonni preparavano “ la mazzetta”, poche monete da 5/10 lire che mettevano da parte proprio per loro. Anche nel pomeriggio figli e nipoti andavano a fare gli auguri ai nonni, ma ci si teneva molto anche ad andare dai compari. Finite le feste, si ritornava alla vita, alle ristrettezze e alle preoccupazioni di tutti i giorni, quel periodo festoso e spensierato era finito per cui si usava dire: “Prima Natale né fridd né fame, ropp Natale fridd e fame!












sabato 11 dicembre 2021

"IL TEMPO DELLA VENDEMMIA"


PER APPROFONDIRE L'ARGOMENTO "IL TEMPO DELLA VENDEMMIA"

Ci si avviava la mattina con i traini con tutto l’occorrente: tini, botti, secchi ecc.; arrivati nei campi si procedeva subito a scaricare tutti gli attrezzi e ognuno prendeva posto davanti al suo filare e si accingeva a recidere i bei grappoli e a riempire il secchio che si andava poi a svuotare nel tino o nella botte posti fuori al filare o sotto qualche pianta.
L’operazione di svuotamento era sorvegliata da una persona adatta a ripulire il raccolto da foglie, seccume , muffe, parti marce e non mature per avere un raccolto di buona qualità.
Si mettevano da parte i grappoli più belli di uva bianca, che venivano appesi per essere essiccati e che venivano poi utilizzati in cucina come uva passa
Se il contadino doveva fare il vino per sé e per la famiglia, portava l’uva a casa per la pigiatura , se intendeva venderla , lasciava le botti in campagna e il giorno dopo sarebbero venuti i compratori, già contattati, a prelevarla.
Erano giornate di intenso lavoro ma non se ne avvertiva la stanchezza, tra le risate e i canti in coro che intonavano i vendemmiatori a cui talvolta rispondevano i lavoratori dei campi vicini; qualcuno incominciava a cantare ma da lontano non si capiva bene cos’era, poi le voci si univano a formare cori che si armonizzavano e correvano da un filare all’altro; erano per lo più canti d’amore ma che esprimevano anche la gioia di vivere di persone felici di stare insieme, di condividere il lavoro, il cibo, il divertimento, in sintonia con un territorio bello e generoso, che grazie alla fertilità e al lavoro dell’uomo, forniva loro prodotti buoni e genuini per un’ alimentazione salutare.
Quello della vendemmia era, dunque, un vero e proprio momento rituale, un evento sociale significativo , in cui, se il buon sapore dell’uva deliziava il gusto, la socializzazione e il divertimento ritempravano lo spirito, un’ occasione preziosa in un tempo in cui i divertimenti erano pochi.
Quando arrivava il momento di mangiare ci si sedeva all’ombra di qualche pianta per la merenda e ognuno portava qualcosa da casa ma la padrona ci teneva a far bella figura e portava per tutti: pane, salsiccia, grandi frittate, rapeste lessate , condite con olio e peperoncino, olive, ventresca , insalata di pomodori ecc. e tutti mangiavano con appetito; erano tempi in cui non c’era l’ abbondanza di oggi ma il cibo era buono e genuino e chi lo mangiava ne aveva grande rispetto.
Una volta portata l’uva a casa, avveniva la pigiatura a piedi nudi, come molti ricordano, poi si lasciava fermentare il tutto per alcuni giorni, passando così alla trasformazione del succo di uva in vino, avendo cura di rigirare di tanto in tanto. Al termine della fermentazione si separava il vino dalle vinacce e cominciava la rifermentazione e l’invecchiamento.
Dopo la pigiatura, però, c’era una successiva torchiatura delle vinacce, da noi detta “ru sprumuturu”, ed era in quel periodo che l’ odore forte e pungente della vinaccia si diffondeva all’intorno, nei cortili e nei vicoli; poi le vinacce venivano portate alla distilleria Petrone , dove, da esse si ricavava l’alcol.
La distilleria lavorava ininterrottamente da settembre a marzo, di giorno e di notte; la pigiatura della vinacce veniva fatta con i piedi affinché non si ossidassero, e durante il lavoro si sentivano risuonare i canti degli uomini impegnati nella distillazione; una volta era usuale sentire la gente cantare, non succedeva solo in campagna ma cantava nel lavoro il falegname, il panettiere ecc., era probabilmente un modo di esprimere pensieri e sentimenti, raccontando con il canto anche ciò che si provava, cosa che oggi purtroppo non succede più.



( La foto è tratta dal libro di Antonio D'Amato " Mondragone Scorci di vita passata")

venerdì 10 dicembre 2021

LE COMARI DI NATALE

 LE COMARI DI NATALE (Questo breve racconto, ambientato nella Mondragone di un tempo, è stato drammatizzato, anni fa, in occasione di una recita natalizia dagli alunni della scuola elementare di S. Nicola)

Qualche giorno prima di Natale comma Rusin si recò a casa di comma Maria e la trovò tutta euforica e mostrandole una tavolata di struffoli, le disse: - Verit, cummà, comm stong nfac(e)nnat, aggiu fatt cierti strufl cu nu mel roc(e) che s scigli(e)n mocc! E comma Rusin: - Ah, e comm so beglie, cu bona salut! Cummà s(e)ntit, ij so v(e)nut p v ricje na cosa. Sapit, rent a ru vicul nuost c(e) sta na famiglia puvurella puvurella, ru padr a perz a fatic, a mamm sta malat e ri figlij , chelle pover criatur fann na pen! Vuje ce vulessen mannà caccos p stu Natal? A piaceru vuost, eh?! Comma Maria ci pensò su un attimo, poi prese il piatto di struffoli più piccolo che aveva e glielo diede. Comma Rusin ringraziò e se ne andò e intanto pensava tra sé: - Ah, Gesù Cristu mij, ma manc quann nasc(i) Tu a gent s pass a man pa cuscienzij?




IL TEMPO DELLA VENDEMMIA

 IL TEMPO DELLA VENDEMMIA

Quanne se vignegna te so tutte cumpare e nepute
Quanne se zappa nun tieni né cumpare e né nepute
Da questo proverbio si capisce com’era atteso e gradito il periodo della vendemmia per grandi e piccoli a Mondragone, dove a tutti faceva piacere andare a vendemmiare, “a struccà l’uva”, in dialetto mondragonese perché, a differenza degli altri lavori agricoli, la vendemmia era un’ attività festosa e il clima che si veniva a creare era allegro e conviviale; erano probabilmente i giorni più belli dell’anno da trascorrere in campagna, in mezzo alle vigne tinteggiate dai caldi colori autunnali con temperature miti, difatti non faceva più caldo e non ancora freddo.
Mentre si tagliavano i grappoli faceva piacere piluccare qualche chicco d’uva, dolce e dissetante ma se ne potevano fare anche delle vere scorpacciate, dato che nessun rimprovero ne sarebbe mai derivato; alla fine della giornata, poi, il padrone non negava a nessuno di portare un po’ di uva a casa ed è per questo che un altro proverbio dice:
Chi n’arrappulo e chi na pigna
Povera vigna mia senza vuaragno
Era il lamento di qualche contadino tirchio che si rammaricava per l’uva che veniva mangiata e donata e non venduta e che quindi non produceva guadagno ma si trattava di casi rari e sporadici perché, in realtà, nell’antica società contadina, c’era l’usanza di mandare a tutti, vicini, amici e parenti un po’ dell’uva raccolta; c’era, dunque, una buona e bella abitudine, quella di condividere i beni che si avevano a disposizione, con tutti, come in una grande famiglia; lo si faceva durante la vendemmia, ma anche quando si faceva il pane e quando si ammazzava il maiale.
La vendemmia era per il contadino il momento più atteso, quello di tirare le somme di un intero anno di lavoro, a volte non sempre giustamente ripagato a causa di qualche grandinata o dell’eccessiva siccità.
Il vigneto nella famiglia contadina ha sempre occupato un posto di rilievo, veniva seguito nell’arco di tutte le stagioni con i lavori di potatura, legatura e piegatura dei tralci, zappatura, cimatura , pulizia dalle erbacce, perfino protetto dagli uccelli con gli spaventapasseri.
La produzione del vino era una delle principali fonti di guadagno a Mondragone, quando i vigneti erano tantissimi ed occupavano tutta la zona a destra e a sinistra della Domitiana, dal lato del mare e dal lato della montagna oltre a tutti i vigneti disseminati lungo la via Appia antica, via Padule e lungo la strada per Falciano. Difatti i matrimoni si contraevano dopo la vendita del vino perché con i proventi da esso ricavati si affrontavano le spese ma non solo, con essi si potevano realizzare anche altri progetti, come comprare terreni o costruire case ecc.
La vendemmia iniziava solitamente tra la seconda metà di settembre e la prima di ottobre in giornate di sole, a mattina inoltrata quando l’uva era completamente asciutta dalla rugiada. L’esperienza del contadino era fondamentale per capire qual era il momento di iniziare la vendemmia e quando l’uva era matura al punto giusto.
Quando arrivava il tempo della vendemmia c’era bisogno dell’aiuto di tutti, veniva mobilitata tutta la famiglia, dal più grande al più piccolo, si cercava poi aiuto nella parentela e nel vicinato e se ancora non bastava, si prendevano persone a giornata come braccianti.
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I CARRI DELL’UVA

Una volta, quando i vigneti a Mondragone erano tantissimi e la produzione di vino era una delle principali attività dell’economia mondragonese, si svolgeva la Sagra dell’uva, una festa molto gradita ai Mondragonesi, che attirava anche tanti turisti.
Come riferito dal prof. Schiappa in uno dei suoi libri, era stata istituita nel 1950 per iniziativa della Cooperativa LAUMPAA, sotto il patrocinio del Comune e de “Il Mattino” e , successivamente fu organizzata dalla Pro Mondragone, con il patrocinio dell’ amministrazione Provinciale di Caserta.
Venivano allestiti alcuni carri allegorici ispirati alla vendemmia, che partivano dal Palazzo Ducale, attraversavano Corso Umberto e poi proseguendo verso Viale Margherita, si dirigevano verso il mare.
Quello che attirava maggiormente l’attenzione erano, oltre alle scene bucoliche dei carri raffiguranti la vendemmia, con tanti grappoli di uva e bambini che cantavano e ballavano, le ragazze, vestite alla maniera campagnola , belle e giovani, che sfilavano sui carri, antesignane delle odierne miss.
Quando i carri arrivavano sulla Domitiana, le ragazze offrivano l’uva ai viaggiatori che si trovavano a passare; in quegli anni, però, le macchine che transitavano erano di numero molto inferiore a quelle di oggi e quindi tutto si svolgeva in un’atmosfera festosa senza intralcio di traffico alcuno.
Quando i carri arrivavano giù a mare, nel salone del lido Airone una commissione di esperti premiava le migliori uve da tavola e da vino esposte dai diversi produttori .
All’evento, poi, venivano aggiunte, di volta in volta, simpatiche innovazioni. Quando la PRO LOCO di Mondragone era presieduta dall’avvocato Giovanni Tarcagnota, fu organizzata la prima esposizione di macchinari agricoli da vino che richiamò tanti visitatori, soprattutto delle categorie interessate.
Si aggiunse anche un concorso di poesia, ispirato alla festa e i migliori componimenti sul tema venivano premiati con coppe e medaglie da un’apposita giuria.
Quando i carri arrivavano alla Rotonda ,tra l’alternarsi di balli e canti, avveniva la premiazione del carro più bello ma il momento più atteso era senza dubbio l’elezione della Reginetta dell’Uva, tra le ragazze giovani e avvenenti che sfilavano in abiti campagnoli.
Nella prima edizione fu eletta all’unanimità la graziosa Lucia Pontillo, figlia della mitica maestra Carrano, che insegnò a Mondragone per diversi anni.
Nella seconda edizione fu eletta Amalia Pellegrino e le due damigelle furono Silvana Boccolato e Maria De Lucia.
Nel ’54 vinse il titolo Emilia Vellucci, la proprietaria del negozio di abiti da sposa a corso Umberto, Emile Moda. Lei sfilava sul carro preparato dal signor Montanaro, del rione san Francesco, sul quale troneggiava un gigantesco fiasco di vino e tutt’intorno le ragazze, che offrivano grappoli d’uva ai passanti.
La giuria fu particolarmente colpita dalla bellezza prorompente della ragazza e dal vestito, che aveva confezionato lei stessa, essendo già allora una brava sarta: la camicia bianca e vaporosa , ornata di merletti, sulla quale spiccava un gilè nero; la gonna arricciata in vita, era di rasone lucido color fucsia, con sopra il grembiule nero, secondo l’usanza contadina, ornato ai lati dai volants, in testa un fazzoletto a fiori, alle orecchie orecchini bianchi di perla a goccia. Era sì un vestito alla campagnola ma molto bello a vedersi, raffinato ed elegante, curato nei minimi dettagli. La Reginetta, quell’anno, fu premiata con un cesto di profumi, che le fu recapitato a casa con tanto di diploma e fotografia. Come damigella fu eletta Rosa Miraglia.
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Foto pubblicata su "Mondragone immagini di ieri"